martedì 7 maggio 2013
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Con il referendum previsto per il 26 maggio a Bologna tornano a soffiare i venti dell’ideologia, questa volta contro il pluralismo scolastico, la legge del 2000 istitutiva del sistema scolastico integrato e la pur assai scarsa contribuzione dello Stato per le scuole paritarie. Sono scuole che rispondono a organizzazione e programmi previsti dalle leggi per garantire una formazione adeguata a chi scelga di accedervi. Per ammissione dei proponenti, il referendum, al di là del caso specifico relativo alle scuole dell’infanzia, vuole riproporre una contrapposizione tra "scuola privata" e "scuola pubblica" che non ha più senso. Ma un articolo dei giorni scorsi de il manifesto ha riconosciuto valide alcune ragioni di chi sostiene la normativa attuale, e confermato di fatto il carattere ideologico dell’iniziativa di Bologna.È bene premettere che è in discussione il grande tema della libertà, perché la libertà della scuola è uno dei capisaldi del liberalismo classico, al quale alcuni gruppi laicisti si richiamano solo quando torna utile. John Stuart Mill critica l’ipotesi di «un’educazione di Stato generalizzata» come «un sistema per modellare gli uomini tutti eguali», mentre dovrebbe essere «in competizione con molti altri, condotto come esempio e stimolo che contribuisca a mantenere un certo livello qualitativo generale». Guglielmo Humboldt ritiene che «una nazione, in cui (domini) solo un sistema di educazione, mancherà di quel gioco di forze da cui nasce l’equilibrio». Su questi principi, come ha ricordato di recente Avvenire, si fonda la legislazione moderna di molti Paesi occidentali, nei quali l’istruzione pubblica si intreccia con scuole private di diversa ispirazione, tutelate e sostenute a livello giuridico e sociale. In Francia è proprio la laicité repubblicana che legittima e favorisce una vasta rete scolastica "privata", che raccoglie il 16 per cento della popolazione giovanile, finanziata in buona parte dallo Stato. Inoltre è in gioco qualcosa di più importante, il diritto dei genitori di educare i figli secondo le proprie convinzioni sancito, oltre che dalla nostra Costituzione, dalle Carte internazionali dei diritti umani, a cominciare dalla Dichiarazione Universale del 1948, per la quale «i genitori hanno diritto di priorità nella scelta del genere di istruzione da impartire ai loro figli». Il Patto Internazionale sui diritti economici, sociali e culturali, del 1966, garantisce «la libertà dei genitori di scegliere per i figli scuole diverse da quelle istituite dalle autorità pubbliche, e di curare l’educazione religiosa e morale dei figli in conformità alle proprie convinzioni». Si tratta di un aspetto centrale per la crescita della società e l’arricchimento delle metodologie dell’istruzione, per le risposte positive da dare all’emergenza educativa riconosciuta un po’ da tutti. Sono purtroppo proprio i valori di libertà e di pluralismo, e il diritto dei genitori di educare la prole, gli obiettivi posti nel mirino da proponenti e sostenitori dei quesiti referendari bolognesi, che utilizzano vecchie concezioni della laicità dello Stato e denunciano presunti privilegi delle "scuole private". Le scuole paritarie non fruiscono però di alcun privilegio, perché rispondono ai parametri richiesti dalla legge statale, sono aperte a tutti senza alcuna forma di discriminazione, sono sostenute in buona parte da contributi privati che mitigano (in qualche caso annullano) le rette sostenute dalle famiglie interessate. Lo Stato, da parte sua, risparmia perché il "contributo" riconosciuto non è che una minima parte (all’incirca un dodicesimo) di quanto spenderebbe se provvedesse all’istruzione ed educazione dei ragazzi che frequentano le scuole paritarie. Questo elemento, del vantaggio per gli enti statali, è di solito taciuto e misconosciuto, ma – come già accennato – un articolo de il manifesto dei giorni scorsi riconosce implicitamente e con onestà che quanto ha ricordato il cardinale Bagnasco, secondo cui «quel finanziamento permette allo Stato di risparmiare» è vero. Aggiunge, però, che «non siamo di fronte a una questione contabile. Si tratta della qualità dell’azione pubblica, del modo in cui lo Stato adempie ai suoi doveri nei confronti dei cittadini». E questo è effettivamente il punto. Se lo Stato risparmia, il risparmio andrà a vantaggio proprio della qualità dell’insegnamento pubblico che deve essere sempre migliorato e rafforzato. Di qui la funzione sociale della scuola paritaria d’iniziativa "privata" che, oltre a venire incontro al diritto delle famiglie, comporta vantaggio per le finanze statali. Il riconoscimento di questa verità deve far riflettere con attenzione perché il referendum del 26 maggio non mira a sostenere la "scuola pubblica" – che trae profitto dalle iniziative educative dei privati – ma a riproporre una visione di ciò che è "pubblico" chiusa dentro una contesa ideologica di tipo ottocentesco, limitando la libertà delle formazione sociali tutelate dalla Costituzione: famiglie, enti, confessioni religiose. Non ci si accorge però che, per usare la (felice) terminologia degli stessi promotori del referendum, i diritti di libertà delle famiglie, e il pluralismo scolastico, sono tra i primi «beni comuni» che la legge e la società devono tutelare e promuovere.
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