I conti da rifare sull'export di armi
venerdì 28 aprile 2017

Il boom delle esportazioni militari italiane (+85% tra il 2015 e il 2016) sottolineato nella presentazione della relazione annuale inviata dalla Presidenza del Consiglio al Parlamento costituisce fonte di seria preoccupazione. Il commercio internazionale di armamenti continua a crescere da alcuni anni e l’Italia continua a svolgere un ruolo da protagonista con il gruppo di proprietà pubblica Leonardo (già Finmeccanica). E con questa realtà bisogna decidersi a fare i conti, ma davvero tutti.


Attraverso Leonardo, lo Stato italiano non contribuisce alla produzione di quel bene pubblico globale che è la pace e che costituisce l’unica condizione che garantisce sviluppo economico e sociale nel lungo periodo. Alimenta, invece, la spirale delle spese militari a livello globale, che si traducono inesorabilmente in una perdita sostanziale di opportunità economiche future. Per di più aumentare le esportazioni di armi in regioni vicine, anche a regimi non democratici, non fa altro che alimentare insicurezza e instabilità ai nostri confini. E un aumento dell’insicurezza produce rapidamente altri danni, economici e non solo. In primo luogo, una minore attività da parte delle imprese nei settori civili dell’economia che non andranno più a operare in aree dilaniate da conflitti in corso o in via di manifestazione. In secondo luogo, un aumento dei costi futuri (risucchiando risorse altrimenti destinate alla cooperazione internazionale allo sviluppo) nella gestione dei rifugiati in fuga da queste stesse regioni e per la partecipazioni a missioni militari di "stabilizzazione" da parte delle nostre Forze armate.


Esportare armi, pertanto, produce profitti nel breve periodo per poche imprese, ma costi elevati nel medio-lungo periodo per la società e lo stesso sistema produttivo nel suo complesso. Inoltre, a dispetto dell’enfasi che qualche osservatore vorrà certamente porre, per esempio, sulle dotazioni tecnologiche degli aerei da guerra Eurofighter targati Leonardo da fornire al Kuwait, e quindi della preferenza che a livello internazionale viene riservata a favore delle eccellenze italiane in ambito industriale e militare, è necessario evidenziare che forniture militari di tale ammontare (7,3 miliardi) discendono da un quadro di relazioni diplomatiche ben più ampio. Pur non essendo molto note, infatti, le relazioni con il Kuwait si sono andate rafforzando negli ultimi anni. Basti pensare, ad esempio, che il fondo sovrano del Kuwait (Kuwait Investment Authority, Kia) dal 2014 è socio di Cdp equity (già Fondo strategico italiano) in Fsi Investimenti Spa, che a sua volte detiene partecipazioni in importanti realtà produttive italiane.

Questo implica intuitivamente che una valutazione di costi-benefici in merito alla fornitura dei caccia militari è decisamente più complessa e in particolare ha costi ben più ampi rispetto a quelli puntualmente riportati dagli organi di stampa. Nel caso specifico, non possiamo non considerare i costi derivanti dalle nostre obbligazioni militari e diplomatiche maturate nell’area del Golfo Persico a partire dalla partecipazione alla guerra in Kuwait e in Iraq nel 1990-91 fino ad oggi. A ben guardare, il costo più elevato per l’Italia è probabilmente quello di credibilità della nostra democrazia che attraverso l’operato di un’azienda di proprietà pubblica non rispetta leggi scritte dai suoi stessi legislatori (la Legge 185/90) e il trattato internazionale sul commercio di armamenti dell’Onu (ratificato dall’Italia il 2 aprile 2014) che pongono dei limiti stringenti alla cessione di armi a Paesi belligeranti come è il caso del Kuwait impegnato, come l’Arabia Saudita, nella guerra dimenticata dello Yemen.

Queste considerazioni non fanno altro che confermare l’approccio che da tempo si segue su queste pagine, vale a dire quello di superare la superficialità delle retoriche militariste di varia estrazione e di evidenziare in maniera approfondita gli aspetti da tenere in considerazione nella vera definizione di 'vantaggi' e 'costi' delle guerre. La realtà è che le guerre, e le spese militari che le precedono e le accompagnano, sono foriere non solo di tragedie umanitarie, ma anche di danni economici e politici. In questo senso, gli eventuali profitti di breve termine delle aziende militari non sono da considerarsi in maniera acritica valori positivi da iscrivere in un bilancio annuale di un Paese, ma piuttosto i costi di lungo periodo da valutare attentamente e che in un domani non lontano potrebbero costituire minacce rilevanti per la pace mondiale, ma anche per la nostra sicurezza e per la tenuta della nostra democrazia.

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