Le aule chiuse sono una fabbrica di nuovi poveri
venerdì 27 novembre 2020

La preoccupazione di mettere prima i poveri può essere declinata in vari modi. Ma per i cristiani non può mai finire tra parentesi: appartiene al Dna dei credenti, e il Papa non si stanca di ricordarcelo dall’inizio del pontificato e con speciale intensità in questa fase di emergenza in cui aumenta il rischio di un ripiegamento in sé stessi. Un approccio caritatevole, per esempio, dovrebbe spingerci a fare di tutto per rimuovere all’origine le condizioni che alimentano la povertà, oggi e nel futuro. In questo senso è importante capire quanto può costare a una generazione il prezzo di un’istruzione 'sospesa', preoccupandoci per quanto si sta sottraendo ai più giovani, ai bambini e ai ragazzi, con la chiusura delle scuole e con una didattica generosa, ma limitata o incompleta.

Tutte le ricerche sociali dicono che la contrazione del diritto all’istruzione è predittiva di povertà. E questo avviene non tanto perché una minore preparazione da piccoli può comportare stipendi più bassi da grandi, ma soprattutto perché cancellare la scuola dall’orizzonte quotidiano di un giovane significa informarlo che la società ha abdicato al compito di credere nelle sue potenzialità, e di investire affinché il suo impegno possa avere ricadute positive per l’intera comunità. E qui veniamo al secondo problema: l’effetto che può avere il messaggio contenuto nella decisione di chiudere le scuole. Ripetiamolo: non si tratta solo di apprendere meno, ma di crescere nella convinzione che la scuola e lo studio, la cultura, l’istruzione, sono la prima cosa che può essere sacrificata di fronte a un’emergenza.

È questo il messaggio che l’Italia rischia di trasferire a una generazione intera, una “lezione” che non potrà che avere ricadue negative. È in virtù di tale preoccupazione che in altri Paesi il discorso pubblico sulla scuola è stato universalmente e radicalmente diverso, senza esitazioni, mantenendo la continuità dell’istruzione come un baluardo. Questo diverso approccio determinerà una differenza tra le generazioni dei vari Paesi. Forse, allora, non è un caso che la maggiore convinzione e tempestività nel chiudere i portoni delle scuole sia emersa proprio nei territori e nella nazione in coda alle classifiche Ocse per tasso di laureati, e ai primi posti per abbandono scolastico e numero di giovani che non studia e non lavora, i tristemente famosi 'Neet'.

Viene da pensare che nonostante i buoni pensieri e le buone pratiche di tanti, in Italia nutriamo probabilmente un’avversione strisciante verso la cultura, la formazione e l’istruzione, e questa attitudine riemerge inesorabilmente ogni volta che se ne presenta l’opportunità. Il primo passo per programmare la povertà è proprio sottrarre a un giovane il diritto a una buona istruzione. Ed è anche il modo più efficace per impedirgli di diventare un cittadino libero, se è vero che la possibilità di dare voce ai poveri passa anche dal loro accesso alla cultura e al sapere.

Non basta entrare in classe per rendere automatico un processo positivo, ma è sufficiente chiudere un cancello o un portone di una scuola per aumentare le probabilità di fallimenti futuri. Un popolo poco istruito è più malleabile e meno attrezzato a tutelarsi dalle sirene dei populismi e dalla circolazione di bufale rivendute come “fatti alternativi”. Un anno di scuola sospesa è un problema, ma molto più grave è il messaggio con il quale si dice che, alla prima difficoltà, la soluzione è stare a casa da scuola. Dovremmo tenerlo presente ogni volta che, ragionando su cosa riaprire e cosa no per gestire l’emergenza sanitaria, mettiamo in secondo piano i bisogni fondamentali dei giovani, facendone dei nuovi poveri.

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