La beatitudine della sete
sabato 4 luglio 2020

L’invocazione dell’uomo è l’invocazione stessa di Dio. L’uomo prega a immagine e somiglianza di Dio: di chi, se no, in questa che è la più grande delle sue opere? I Salmi sono la preghiera di Dio

Sergio Quinzio, Un commento alla Bibbia



La qualità spirituale della nostra vita dipende da come usciamo da pochi incontri decisivi. Uno di questi è quello tra il ragazzo che eravamo e l’adulto che siamo diventati. Un incontro che nello sviluppo di una esistenza arriva quasi sempre – dentro un libro che stiamo leggendo, in un sogno, mentre puliamo la stanza o apparecchiamo la tavola. Giunge sempre inatteso, non si fa mai annunciare, non è un incontro per bene, è un guado di un fiume tumultuoso. Ci prende di sorpresa e ci trova impreparati. È sempre un evento decisivo. L’incontro inizia con una domanda tremenda del ragazzo: "Chi sei?". Noi lo riconosciamo subito, perché in lui rivediamo quel volto bambino che non si è mai spento nell’anima. Lui no: per lui siamo uno sconosciuto, siamo troppo cambiati perché quel fanciullo possa riconoscersi in quell’adulto. Quel "chi sei?" risuona in noi come qualcosa di spaventoso, ci toglie il fiato. In quella domanda risentiamo l’eco di quella fatta da Elohim all’Adam ("dove sei?"), rivive la domanda a Caino ("dov’è tuo fratello?"). E noi ancora ci scopriamo nudi, ci vergogniamo, non riusciamo a rispondere né vogliamo farlo. Se abbiamo salvato qualcosa dell’innocenza dell’infanzia quella domanda può farci quasi morire. Poi in un attimo rivediamo tutta la nostra vita e ci nasce una infinita struggente nostalgia di purezza, di verità e di tutte quelle parole prime che sentiamo perse per sempre.

Se quell’adulto è qualcuno che da giovane ha sentito chiara e forte una voce vera e ha risposto, l’appuntamento è ancora più terribile. Il "Chi sei?" diventa la domanda che la prima vocazione rivolge all’uomo o alla donna che quella stessa vocazione ha generato. Quel ragazzo, con la sua sola presenza, ci dice: la promessa era un’altra. Anche quando la vita sta funzionando, ha portato frutti, stima, riconoscimenti, di fronte al ragazzo sentiamo più forte e più vero che la promessa non era quella che sembra compiersi, perché noi l’abbiamo tradita. Il grande tradimento si è consumato poco alla volta, non lo sapevamo e non lo volevamo, ma la voce che aveva seguito quel ragazzo e la voce che stiamo seguendo noi oggi non parlano più tra di loro, non si capiscono, sono diventate reciprocamente estranee. Dopo questi incontri notturni con l’angelo, o si rinasce o si inizia a morire per sempre. «Come la cerva anela ai corsi d’acqua, così l’anima mia anela a te, o Dio. L’anima mia ha sete di Dio, del Dio vivente: quando verrò e vedrò il volto di Dio? Le lacrime sono il mio pane giorno e notte, mentre mi dicono sempre: "Dov’è il tuo Dio?"» (Salmo 42, 2-5).

Così inizia il meraviglioso Salmo 42, con cui si apre il secondo libro del Salterio, e che con il suo ritornello («anima mia perché ti angosci?») abbraccia anche il Salmo 43 per formare un unico canto. La metafora della cerva assetata che dopo lungo peregrinare giunge presso un ruscello secco e inaridito, è molto forte e ricca. È di casa nella letteratura spirituale, ha ispirato uno dei cantici spirituali più sublimi (quello di Giovanni della Croce). Chi ha sentito il bramito di un cervo assetato dice che è un verso inquietante, un lamento straziante che non ha dimenticato più. Un suono che avrà colpito l’uomo antico mediorientale, più capace di noi nel leggere e decifrare i lamenti della creazione. Quel salmista, forse esiliato a Nord, nella regione dove nasce il Giordano, lontano da Gerusalemme e dal suo tempio, prese l’urlo animale più lancinante che aveva udito e lo fece diventare il canto della sua anima bramante un Dio della giovinezza che non c’era più. La Bibbia è piena di parole prese in prestito dalla natura e dagli animali per provare a dire ciò che le emozioni umane non sanno dire: l’ardere di un roveto, la nube poggiata su una montagna, il fuoco sul Carmelo, il venticello leggero, l’asina di Balaam.

La nostalgia di un passato meraviglioso in un presente arido occupa il centro del canto: «Ricordare mi strazia, l’anima evoca il tempo felice: avanzavo tra la folla, la precedevo fino alla casa di Dio, fra canti di gioia e di lode di una moltitudine in festa... Di te mi ricordo dalla terra del Giordano e dell’Ermon, dal monte Misar» (42,5;7). La sete di questa cerva non è allora la sete buona di chi sta arrivando all’acqua. È la sete di chi vaga nel deserto cercando l’acqua in un’oasi conosciuta in altri attraversamenti e che ora si è seccata. Quindi geme, anela, grida, urla per una sete che non può estinguere perché l’acqua non c’è. Non è semplice utilizzare l’immagine della sete per dire il rapporto con Dio. Una certa letteratura religiosa scioglie la metafora equiparando la fede all’acqua che estingue la sete. La sete sarebbe il movimento ascendente dell’uomo, la domanda antropologica cui risponde Dio con l’offerta della fede. Da questa prospettiva, non ci sarebbe nulla di religioso nell’esperienza della sete, che sarebbe soltanto la premessa della fede, l’anticamera della vita religiosa che inizierebbe quando raggiunta la sorgente finalmente si beve – la sete termina nell’incontro con l’acqua. Per tanti la fede è questo, e nella Scrittura ci sono pezze d’appoggio per una tale interpretazione dell’acqua e delle sete (Gv 4,13-14).

Ma ogni salmo è molte cose assieme, è stratificazione di significati e di esperienze diverse di fede e di umanità. Su questa sete il salmo ci suggerisce anche qualcosa di diverso. La sete non è solo preparazione dell’esperienza religiosa, è già fede, è già rapporto con Dio. Il tempo della sete è il tempo della fede: «Tutti nella Scrittura muoiono di sete, e che cosa è questo universale sitire se non Dio stesso assetato di sé? Sempre ho pensato, da che l’ho appreso, che morire con questo versetto sulle labbra sarebbe un bel non-morire» (Léon Bloy, "Le symbolisme de l’Apparition", 1880). In questo salmo, Dio è menzionato 22 volte. Un canto disperato per l’assenza di Dio è uno dei salmi più abitati dal nome di Dio dell’intero Salterio. Il deserto nella Bibbia è luogo dell’incontro con Dio. La terra promessa non è l’unico luogo dove Dio abita, né lo è il tempio. Mosè non entrò nella terra promessa a dirci che anche il deserto e la sua sete possono essere la tenda del convegno con Dio, forse quello più puro e più vero. Il suo morire fuori da Canaan è anche un modo per eternizzare la promessa e il suo desiderio.

Il salmo, allora, ci mette in guardia nei confronti di un tipico errore dell’uomo e della donna di fede, quello di identificare la fede soltanto con l’acqua. Errore molto comune, di chi pensa e vive la fede come stabile bivacco in un’oasi ricca d’acqua, che trovata al termine di un primo cammino non la si abbandona più. Qui la cerva riposa, serena e dissetata, in quel nuovo giardino da cui non si allontana per nuove peregrinazioni. È questa la visione della fede come consumo di beni spirituali, come confort, come piena soddisfazione del consumatore religioso. Che dimentica la sequela e l’arameo errante. Il Salmo 42-43 ci ricorda invece che è la sete la condizione originaria della vita spirituale adulta, perché anche se troviamo qualche sorgente lungo il cammino occorre subito levare la tenda, riprendere senza indugio la via, e rifare presto la stessa esperienza della sete-fede. Che la crisi della fede non è l’aridità ma l’estinzione della sete. Finché custodiamo la sete di Dio e di vita stiamo camminando nell’unica strada buona, meglio ancora se in compagnia dei poveri e degli assetati e affamati. La fede biblica è urlare Dio nel tempo infinito della siccità, perché nessuna esperienza del divino può appagare il nostro desiderio di paradiso. Su questa terra non c’è un’acqua capace di dissetare la sete di Dio, e se ci sentiamo religiosamente dissetati è molto probabile che stiamo bevendo l’acqua degli idoli, che è anche un distributore automatico di bevande dissetanti. Interessante è poi notare un dettaglio: anche se il testo ebraico parla di cervo (’aiàl), la tradizione ha sempre visto una cerva in questo salmo. Forse perché solo le madri conoscono veramente gli urli gridati per certe assenze, e solo loro hanno imparato veramente la paradossale beatitudine della sete.

Ma in questo salmo c’è anche una bella metafora dell’evoluzione di una vocazione. Inizia con una prima acqua, quella del primo incontro della giovinezza. Continua poi per tutta la vita con l’esperienza della sete, quando si vaga in cerca di quella prima acqua che non riusciamo a trovare più, e mentre vaghiamo la nostra gola arsa d’acqua di riempie del grido di Dio. Per terminare, forse, con una acqua diversa che troveremo dove e quando non la stavamo più cercando – è molto bello che una delle ultime parole di Gesù che i Vangeli riportano sia: "Ho sete". Noi viviamo questa arsura come esperienza di imperfezione, di mancanza, a volte di fallimento, e ci dimentichiamo la beatitudine della sete – "beati coloro che hanno fame e sete di giustizia", che hanno fame e sete di me. Rimpiangiamo l’acqua della prima giovinezza perché non capiamo che quell’acqua aveva soprattutto lo scopo di accendere la sete per poi camminare pellegrini assetati nel mondo. Finché, in un benedetto giorno, non capiamo che è dentro quella indigenza che si nasconde e si trova il senso religioso della vita. Lì stanno la povertà e la purezza che avevamo desiderato nel primo giorno, e avevamo confuso con l’acqua. E, in quel giorno, ci sentiamo amici solidali di tutti gli assetati, gli affamati di pane e di giustizia, con tutti gli indigenti della terra, e diventiamo finalmente poveri. Perché scopriamo che la fede non è possesso, ma promessa.

In quel giorno capiamo che esiste una risposta buona al "Chi sei?" di quel bambino: "Sono te diventato adulto. Sono cambiato molto, è vero, il sole del deserto arido mi ha imbrunito la pelle, mi ha segnato il volto, il cammino mi ha impolverato, il dolore mio e degli altri mi ha ferito, la vita mi ha lasciato le sue stigmate: per questo non mi riconosci. Ma sono io, guardami bene, sono te. Non temere, non ti ho tradito, sono diventato la sola cosa buona che potevo diventare. Credimi: non ho mai smesso di anelare la tua stessa acqua. Credimi: la mia promessa è la tua. Vieni, fidati, dammi la mano, cammina con me: ti attende una vita assetata e meravigliosa".

l.bruni@lumsa.it​

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI