Ciò che riscatta la ricchezza
sabato 11 luglio 2020

Dantès, che tre mesi prima
non aspirava ad altro che alla libertà, ora non si accontentava più della libertà e aspirava
alla ricchezza; la colpa
non era di Dantès ma di Dio che, limitando la potenza dell’uomo, ha suscitato
in lui desideri infiniti!


Alexandre Dumas, Il conte di Montecristo

Desideriamo la ricchezza perché aumenta la libertà. Tra le libertà "comprate" dalla ricchezza, quella più affascinante e tentatrice è la libertà dalla morte e dalla sofferenza. Sta qui la radice della natura religiosa della ricchezza, che può diventare per noi un idolo perché ha tratti che la fanno somigliare alle divinità. Nel Vangelo è stato Gesù stesso a metterla in concorrenza con Dio, perché promette una sua diversa immortalità. Nell’Eden Elohim non proibì all’Adam i frutti dell’albero della vita perché quella proibizione sarebbe stata inefficace, tanto è forte negli uomini e nelle donne il desiderio di immortalità. La ricchezza ci attrae perché ci appare come ciò che sulla terra più assomiglia all’elisir dell’eterna giovinezza. Eros (amore) e plutos (ricchezza) sono i due dèi che, ciascuno nel suo modo, non hanno mai smesso di combattere thanatos (morte).

La promessa della ricchezza esercita, infatti, su di noi un fascino quasi invincibile perché, come la promessa del serpente, non è interamente falsa. Il ricco è meno esposto alle vulnerabilità dell’esistenza, vive in case più sicure, ha accesso a cure migliori. Anche per questa ragione nella Bibbia e in molte culture l’essere ricco è considerato una benedizione di Dio – non a caso usiamo l’espressione "beni", cioè cose buone.
La potenza religiosa della ricchezza cresce con l’estensione dell’area della vita sociale coperta dal denaro, che è sempre stata vasta. Anche in una società pre-moderna la ricchezza fuoriusciva dall’ambito tipicamente economico fino a sfiorare il paradiso e il purgatorio (il mercato delle indulgenze). Non dobbiamo infatti pensare che la ricchezza conti molto solo in una economia di mercato: il denaro era già dio ben prima del capitalismo. Perché in un mondo con scarsa circolazione della moneta, con la ricchezza concentrata in pochissime mani gelose, il potere sovrannaturale del denaro era maggiore di oggi. Se da una parte l’aumento delle aree sociali coperte dai mercati fa aumentare l’importanza della moneta (se con la moneta compri quasi tutto, la moneta diventa quasi tutto), dall’altra la sua più ampia diffusione in molte mani la riduce; e così non è facile calcolare la somma algebrica di questi due effetti di segno opposto. L’avarizia, l’avidità, l’indivia nei confronti dei ricchi non erano nel Medioevo inferiori a oggi, e le dinamiche sociali dietro ai denari di Giuda, alle dracme e ai talenti non erano troppo diverse da quelle dietro ai nostri euro – lo sviluppo dei mercati non riduce l’invidia sociale, ma la orienta in sentieri meno dannosi. Ecco perché l’etica economica biblica non ha perso nulla della sua capacità di parlarci oggi del nostro lavoro, delle nostre ricchezze e delle nostre povertà: «Porgerò l’orecchio a un proverbio, esporrò sulla cetra il mio enigma... C’è chi nel proprio denaro confida, e vanta le ricchezze sterminate. Ma il riscatto di Dio non lo si compra, troppo caro sarebbe il riscatto di una vita» (Salmo 49, 5-8).


Il Salmo 49 ci porta a riflettere sulla natura della ricchezza
e sulla sua promessa di vita eterna, che, se ben intesa, non è totalmente falsa

In un altro dei capolavori assoluti del Salterio, questo salmista, figlio dei profeti e maestro di Giobbe e Qoelet, ci ammaestra con un canto universale rivolto all’umanità intera: «Ascoltate questo, popoli tutti, porgete l’orecchio, voi tutti abitanti del mondo, voi, signori e popolo, nobili e straccioni» (49,2-3). L’enigma riguarda il rapporto tra la ricchezza e la morte, il proverbio è contenuto nel ritornello del salmo: «O uomo colmo di tutto, non passerai la notte, sarai abbattuto come le bestie da macello» (49,13). Il riscatto è il tema centrale del salmo. Nell’antico Israele la Legge di Mosè (Esodo, 21) prevedeva che in alcuni reati una condanna a morte potesse essere commutata in denaro e dunque riscattata. Il Salmo conosce molto bene queste norme giuridiche, e sa che le conosce anche il suo lettore. E quindi sa che il denaro può eccome riscattare dalla morte. Ma il salmo ci vuol dire che la ricchezza può solo ritardare la morte, non può riscattare la condizione di mortalità dell’essere umano, perché Socrate è uomo in quanto mortale. Il salmista tralascia la vittoria penultima della ricchezza e si concentra sulla sua sconfitta ultima.

E così, visto dalla prospettiva della sua mortalità, l’uomo è veramente come gli animali, il ricco è come il povero, il sapiente come lo stolto, e ci ritroviamo dentro un orizzonte di eguaglianza cosmica: «Dell’uomo che si fa ricco, della sua casa che cresce potente, non ti importi. Muore, perderà tutto, la sua potenza non lo seguirà» (49,17-18). Questa vanità della ricchezza l’hanno capita molti sapienti. Ma la capiamo anche noi, come la capiscono i poveri quando vedono ricchi infelici ammalarsi e morire, e la capiscono i ricchi quando fanno l’esperienza che le loro ricchezze non servono per quelle poche cose davvero importanti – il ricco sincero è cosciente della molta vanitas impressa nelle sue ricchezze.
Molto bella poi è la ragione dell’impossibilità del riscatto della vita: «Troppo caro sarebbe il riscatto di una vita». La vita umana non può essere riscattata perché il prezzo sarebbe troppo alto. Torna di nuovo il linguaggio economico dentro la fede, che in genere porta su strade sbagliate. Qui, però, la metafora economica può suggerirci qualcosa di buono. Il valore della vita umana non è riscattabile in denaro perché avendo un valore infinito ci sarebbe bisogno di un prezzo infinito. È questa la base antropologica della non commerciabilità della vita umana: non c’è un mercato per la vita umana perché l’incontro tra domanda e offerta avverrebbe all'infinito, il punto di equilibrio sarebbe troppo alto per trovarsi sulla Terra: ci vorrebbe il Paradiso – e se si trovasse qui un senso buono della metafora del "prezzo" pagato dal Cristo crocifisso? Sta sempre qui il valore della gratuità: la gratuità non ha prezzo perché è impagabile, perché il suo prezzo sarebbe infinito. Allora ogni volta che una vita umana è equiparata a un prezzo monetario, ogni volta che proviamo a comprare una persona o parti di essa, stiamo rinnegando il Salmo 49, che ha la sua radice nel Salmo 8 – «Eppure lo hai fatto poco meno di un Dio» – e nel nostro essere "immagine di Dio". Se Dio è infinito ogni sua immagine è infinita.

Se prendessimo sul serio queste parole dovremmo poi dire che il salario non è la misura del valore della nostra opera. Una parte di infinito resta infinita, e un infinito di ordine inferiore è ancora infinito. Il nostro lavoro vale infinitamente di più dei nostri salari, che quindi dovrebbero essere interpretati come contro-dono, come segno e simbolo di riconoscenza. E quindi non dovrebbero essere troppo diversi e diseguali – sarò ingenuo e idealista (e lo sono, e sto facendo di tutto per continuare a esserlo), ma non riesco ancora ad abituarmi a un mercato che paga un giorno di lavoro di un consulente quanto un mese di lavoro di un bracciante.
Eppure in quell'eguaglianza universale di fronte alla morte cantata dal salmo ci deve essere qualcosa di ancora più profondo. L’umanità, nella coscienza dei suoi poeti e sapienti ha sempre intuito che, al di sotto (o al di sopra) dello spettacolo di vera diseguaglianza e di vera ingiustizia creato dalle ricchezze e dalle povertà, tra gli uomini vi era anche una dimensione altrettanto vera di uguaglianza. Certamente nel nascere e nel morire, nel dolore e nella sofferenza, ma non solo in questo. Un aspetto lo aveva intuito anche l’economista Adam Smith (Teoria dei sentimenti morali, 1759), quando affermava che se dovessimo sommare le gioie e le sofferenze ci accorgeremmo che i ricchi e i poveri sono più simili di quanto in genere si pensa. Perché ci sono felicità dei ricchi che i poveri non conoscono, è vero, ma ci sono anche infelicità dell’opulenza sconosciute ai poveri, come ci sono letizie che solo i poveri con la loro diversa libertà sperimentano, invidiate dai ricchi. Questa strana uguaglianza tra ricchi e poveri, aggiungeva Smith, è bene che sia nota solo ai filosofi, perché, se fosse evidente a tutti, la gente valuterebbe di meno le ricchezze, smetterebbe di impegnarsi per accrescerle, si fermerebbe lo sviluppo economico, che a suo parere si regge su una sorta di «illusione provvidenziale». In molte cose della vita siamo veramente uguali, prima delle ricchezze e delle povertà. Ricchi e poveri si innamorano, sono lasciati e abbandonati, traditi e ingannati, feriti e benedetti, tutti impauriti dal dolore e dalla morte. È per questa «uguaglianza prima» che per chinarci su chi incontriamo «mezzo morto» lungo la strada ci basta riconoscervi «un uomo», e smetteremmo noi di essere umani se prima di soccorrerlo gli chiedessimo l’entità del suo conto bancario.

Guardare la vita dalla prospettiva del suo ultimo giorno dovrebbe quindi accrescere i sentimenti di uguaglianza tra tutti. Ma perché crescano anche i sentimenti di fraternità c’è bisogno di qualcos’altro. Il salmista può dimenticare nel suo canto le vittorie penultime delle ricchezze, può trascurare la loro immortalità seconda. Noi no: noi non possiamo dimenticare che tra il giorno della nascita e quello della morte, i due giorni dove animali e uomini si somigliano tutti nella loro creaturalità effimera e contingente, le esistenze scorrono in modo molto diverso. Il filosofo, il poeta e il teologo fanno il loro mestiere ricordandoci che la ricchezza non riscatta la morte e quindi, in fondo, non vale; l’economista, lo scienziato sociale, il politico sanno invece che ciò che accade tra il primo e l’ultimo giorno è molto importante per la qualità morale e spirituale della vita nostra e di tutti. E quindi la ricchezza vale. E così, dopo aver meditato la vanità del tutto sotto il cielo stellato o durante un funerale, non dobbiamo darci pace finché ogni bambino che nasce possa crescere in un mondo dove la scarsità di beni non gli impedisca una vita degna, dove le condizioni materiali della sua famiglia non divengano un fardello troppo pesante per fargli spiccare il volo, dove non ci siano alcuni ricchissimi che potranno vivere duecento anni con sostituzioni di organi, e altri che moriranno a tre anni per la malaria. La ricchezza non riscatta tutto ma riscatta qualcosa, a volte potrebbe riscattare molte persone da vite indegne, e quindi deve essere equamente distribuita e condivisa. La vita non può essere riscattata dalla ricchezza, ma la ricchezza può essere riscattata dalla comunione: «O uomo colmo di tutto, tu non sai pensare» (49,21).

l.bruni@lumsa.it
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