Al via l'Assegno unico universale: perché serve investire sui figli, ora
giovedì 1 luglio 2021

Entra in vigore oggi, primo luglio, la misura-ponte dell’Assegno unico e universale per i figli, che anticipa l’avvio a regime fissato per il primo gennaio 2022. Si tratta di una novità importante per le politiche familiari italiane. L’assegno va finalmente nella direzione di superare la troppo a lungo ostinata debolezza, disomogeneità e frammentazione delle misure di sostegno economico alla genitorialità (in questo senso è "unico"). Alla base c’è anche un importante cambiamento culturale che mette al centro il bambino stesso, con impegno del Paese a investire in modo solido sul suo benessere e sul suo sviluppo umano – quali che siano caratteristiche e condizioni dei genitori – dalla nascita fino alla maggiore età (in questo spirito è "universale"). Alla misura temporanea, che si esaurirà il 31 dicembre 2021, sono destinati tre miliardi aggiuntivi, che hanno soprattutto l’obiettivo di includere chi finora non beneficiava dell’assegno al nucleo familiare: figli di lavoratori autonomi, liberi professionisti, incapienti (quantificabili nel complesso in 1,8 milioni di famiglie). Le misure di sostegno alle famiglie con figli camminano su due principali gambe. La prima è quella dei servizi di conciliazione tra tempi di vita e lavoro (come nidi e congedi), la seconda è quella del supporto economico alle responsabilità di cura e crescita. L’arrivo di un figlio può, infatti, sia aumentare la complicazione dell’organizzazione familiare, con ripercussioni anche nella dimensione occupazionale e professionale, sia aumentare il disagio economico e il rischio di povertà. La carenza di strumenti adeguati su questi due fronti porta a rinunciare a realizzare pienamente la fecondità desiderata. La presenza di politiche efficaci, al contrario, mette le coppie nella condizione di poter valutare più positivamente la possibilità di un ulteriore figlio.

L’Assegno va quindi inteso come parte importante di un sistema più ampio (solido, integrato e coerente) di misure che consentono alle scelte delle coppie di essere realizzate in un contesto di benessere relazionale ed economico adeguato per la crescita dei figli. I trasferimenti monetari non sono la ragione, di per sé, per cui si ha un figlio, ma aiutano a ridurre l’incertezza nel processo decisionale che porta a tale scelta. Consentono di ridurre il rischio di esperienza negativa dopo l’arrivo di un figlio rispetto alle difficoltà economiche, mettendo in condizioni più favorevoli le coppie orientate ad avere altri figli.

Nelle versioni adottate nei vari Paesi europei si va da un importo che destina lo stesso ammontare a tutti i bambini, a un assegno fortemente legato al reddito della famiglia (formato da una bassa componente di base che va universalmente a tutti, a cui si aggiunge una incisiva componente variabile). Questo secondo caso si configura più come strumento di contrasto alla povertà che di politica familiare in senso proprio. La misura-ponte entrata in vigore il primo luglio risulta fortemente progressiva (il massimo è 167,5 euro per bambini in famiglie con Isee pari o uguale a 7 mila euro, ma si scende a 83,8 euro mensili per famiglie con Isee di 15 mila e a 30 euro per Isee di 40 mila, per poi annullarsi oltre 50 mila). Da un lato, l’aumento della povertà seguito alla pandemia ha fatto, giustamente, aumentare l’attenzione verso le famiglie più in difficoltà. D’altro lato, però, se questa misura si sposta su tale obiettivo rischia di rimanere debole l’azione a sostegno della natalità (che ha bisogno di un insieme integrato di misure percepite come rilevanti anche dal ceto medio).

L’Italia presenta da troppo tempo uno dei divari più ampi in Europa tra numero di figli desiderato e realizzato. Un divario a cui corrispondono rinunce sul percorso di vita personale e squilibri demografici crescenti sul percorso comune del Paese.

Se non vogliamo rassegnarci a vedere queste rinunce e questi squilibri allargarsi, è necessario non solo consentire all’assegno di essere una misura di politica familiare in senso proprio, ma anche portarla ai livelli delle migliori esperienze europee. In questo caso il nostro riferimento deve essere la Germania, che destina oltre 200 euro a figlio.

La fecondità italiana, infatti, è scesa così in basso, con una struttura per età così compromessa, che solo portandola ai livelli dei Paesi con i valori più elevati in Europa è possibile invertire la tendenza negativa delle nascite. Questo vale in generale come orientamento da adottare per qualsiasi misura di politica familiare da mettere in campo, compresi i servizi per l’infanzia: non basta l’obiettivo di raggiungere la copertura del 33% (che era l’obiettivo europeo fissato per il 2010) ma si deve puntare a superare il 50% come avviene, ad esempio, in Francia e Svezia. Dobbiamo essere consapevoli che non avremo in futuro più le condizioni favorevoli di oggi, ovvero: il consenso ampio e trasversale tra le forze politiche all’Assegno; le risorse finalmente adeguate disponibili con Next Generation Eu; la spinta che può derivare dal recupero dei concepimenti rinviati durante il lockdown… L’insieme di questi fattori può dare avvio e sostenere un processo che ci porti sopra la media europea entro il decennio. Se non lo faremo, dovremo definitivamente rassegnarci a veder crescere rinunce, diseguaglianze e squilibri. E le stesse misure di contrasto alla povertà saranno sempre meno sostenibili.

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