La morte di un uomo e della decenza
martedì 30 luglio 2019

In questi giorni di solleone certe parole in Italia sembrano proliferare senza controllo. Come aria che sfugga da bocche che non sanno stare chiuse: ma non un’aria innocua. La vetta è il commento venuto dal computer di un’insegnante di Novara, che sulla morte del carabiniere Mario Cerciello Rega ha lasciato partire queste righe: «Sguardo evidentemente poco intelligente. Non se ne sentirà la mancanza». Ora la professoressa, sospesa, dice che altri hanno usato il suo pc. Speriamo, perché che un insegnante dica certe cose atterrisce. Una che sta in cattedra, e insegna ai nostri figli. E gioca fra certezze lombrosiane e convinzioni feroci: quell’uomo, assicura, non ci mancherà. Un insegnante non può, nemmeno nel vociare da mercato ambulante che ci frastorna tra un tweet superfluo e un titolo cattivo, trascendere da quel confine di decenza che si chiama umanità. Oppure, deve almeno cambiare mestiere.

Ma la proliferazione maligna di parole avventate è cosa di tutti i giorni ormai. A poche ore dalla morte di Cerciello, si è diffusa la fake news: gli assassini sono africani. E sul web, via social, sono grondati i soliti commenti, come melma. (Ci deve essere una intima gratificazione nell’insultare tutti insieme. È un po’ come un linciaggio, quando il più mingherlino degli uomini si sente incoraggiato, sostenuto dalla folla inferocita, a scagliare anche lui la sua pietra).

Poi, c’è la quotidiana raffica di parole di ministri o parlamentari, usi ormai a esprimersi come si fa a tavola fra amici, dopo l’amaro, e con la medesima responsabilità. E di quello l’uno non si fida più, e delle parole del premier a quell’altro non importa niente, e aperta, continua, reciproca disistima dentro a un governo apparentemente in carica. Gli italiani stanno ad ascoltare. I più giovani imparano: si può dire qualsiasi sciocchezza, senza pagarne le conseguenze. Almeno, a livello del singolo.

Ma, collettivamente, questo rompete le righe della ragione e del buon senso, davvero è innocuo?
Vengono in mente certi quadri di George Grosz, artista berlinese dadaista che negli anni tormentati della Repubblica di Weimar, prima del nazismo, dipinse con occhi lucidi e angosciati il ripiegarsi su di sé del popolo tedesco, messo in ginocchio dalla sconfitta nella Grande Guerra. "Eclissi di sole" è del 1926. Seduti attorno a un tavolo che pare da poker, in un ufficio elegante, siedono strani personaggi. Dignitosi funzionari in giacca e cravatta, ma del tutto privi della testa, prendono appunti o vergano articoli, per niente preoccupati del loro essere acefali.

Un generale troppo rubizzo ascolta i suggerimenti che gli sibila all’orecchio un finanziere con cilindro nero e l’aria da squalo. Fuori, oltre le vetrate, il sole scuro di un’eclissi porta impresso il marchio del dollaro. Sul tavolo si è insediato impunemente un somaro con i paraocchi, che mangia golosamente, da una mangiatoia, abbondanti pagine di giornali. Sotto il tavolo si intravede un uomo dietro le sbarre, e anche un teschio: come un soprammobile cui nessuno fa caso. 1926, quando il disastro era ancora lontano. Ma un artista può essere un profeta. Forse Grosz, poi costretto alla fuga in America, descrisse e coagulò semplicemente le voci, gli sguardi, le parole in libertà della borghesia tedesca.

Troppi che avevano dismesso ogni facoltà critica, ma continuavano a schiamazzare. Come quando si è persa una memoria e una prospettiva certa del vivere comune. Non vogliamo, non possiamo pensare che questa Italia sia altrettanto in bilico su una crisi tanto grave. Ci turba però, nella amplificazione del web e dei social, il rumoreggiare continuo di parole inutili, irriflesse, viscerali, volgari. Come di tanti troppo spaventati per riflettere, e troppo superficiali per dare retta a un amico vero.

Acqua trasportata dalla corrente. Un’eclissi del sole della ragione, del bene condiviso, della solidarietà, come in quel sole offuscato di Grosz. Perché si scrive ormai sempre più spesso sui social, anche quando si portano gravi responsabilità, non in modo diverso dalle incisioni sulle pareti delle latrine nelle fabbriche o nei bar di una volta. Insulti, lazzi, minacce che restavano sulle piastrelle – povere testimonianze di uomini avviliti e soli. Non ci si deve arrendere a questo, ma prima ancora non lo si può continuare ad applaudire.

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