Incontro alla realtà per vite degne
venerdì 9 ottobre 2020

Nel parlare di “Fratelli tutti” vorrei tenermi fuori dalle polemiche politiche e ideologiche che alcuni hanno acceso. Parto dal fatto. E il fatto è che il Papa mi manda una lettera. Non solo a me, ma anche a me. Come mi interpella? Che cosa chiede a me che faccio politica? La risposta a questa domanda può essere il tentativo di estrarre dall’enciclica un nuovo decalogo aggiornato ai nostri tempi e a cui conformarsi, oppure, come il Papa chiede, mettermi in un atteggiamento di dialogo, cioè di comprensione dell’altro, del Papa.

Capirlo vuol dire cogliere le ragioni profonde e l’origine dei giudizi che esprime sul mondo, immedesimarsi nel suo sguardo. Fratelli tuttinon è un’enciclica sui migranti, ridurla a questo vuol dire sfuggire alla questione di fondo che Francesco indica parlando anche, e soprattutto, di migranti. Per me il punto sta in questa frase: «Il bene, come anche l’amore, la giustizia e la solidarietà, non si raggiungono una volta per sempre; vanno conquistati ogni giorno ».

Che me ne ricorda una di Benedetto XVI: «Dobbiamo costatare che un progresso addizionabile è possibile solo in campo materiale. [...] Nell’ambito invece della consapevolezza etica e della decisione morale non c’è una simile possibilità di addizione per il semplice motivo che la libertà dell’uomo è sempre nuova e deve sempre nuovamente prendere le sue decisioni ». Ribadisce Francesco: «Non c’è un punto finale nella costruzione della pace sociale di un Paese, bensì si tratta di un compito che non dà tregua e che esige l’impegno di tutti».

Su cosa fondarlo? Il Papa usa ben 69 volte la parola verità, lo fa per dire che a tutti, a me che sono cattolico come all’agnostico e al diversamente credente, che è possibile arrivare alla verità sull’uomo, sulla sua dignità inviolabile. Il culmine dell’uso di questa parola è in una citazione di un testo che Francesco definisce «memorabile»: «Se non esiste una verità trascendente, obbedendo alla quale l’uomo acquista la sua piena identità, allora non esiste nessun principio sicuro che garantisca giusti rapporti tra gli uomini. Il loro interesse di classe, di gruppo, di nazione li oppone inevitabilmente gli uni agli altri. Se non si riconosce la verità trascendente, allora trionfa la forza del potere, e ciascuno tende a utilizzare fino in fondo i mezzi di cui dispone per imporre il proprio interesse o la propria opinione, senza riguardo ai diritti dell’altro».

È un passo della Centesimus annus di san Giovanni Paolo II. Posso allora non essere d’accordo sulla necessità di facilitare la concessione di visti, come Francesco chiede, ma non posso non chiedermi se la mia azione politica sia – per usare un’espressione di Jürgen Habermas – «sensibile alla verità». Leggendo ho sottolineato molti passaggi del testo, qui mi limito a ricordarne due. Il primo «Anche oggi dietro le mura dell’antica città c’è l’abisso, il territorio dell’ignoto […] da lì viene il barbaro da cui bisogna difendersi a ogni costo». Io non sono un “aperturista” che ritiene che non esistano confini e che non si debba controllarli, però sono anche convinto che l’imprevisto, ciò che non abbiamo pianificato, che non vogliamo, che ci disturba, sia una condizione a cui non sottrarsi, un fatto che ha dentro una spinta positiva e una domanda di senso.

Mi ha colpito che la stessa parola, “barbari”, l’abbia usata anni fa Vaclav Havel parlando dell’Europa, come di un «felice e straordinario incontro dello spirito dell’antichità, della religiosità ebraica, del cristianesimo e della energia fresca delle stirpi cosiddette barbariche». Pensiamoci. La seconda sottolineatura è la parola “lavoro”. Dice Francesco: «Il grande tema è il lavoro [...] aiutare i poveri con il denaro dev’essere sempre un rimedio provvisorio per fare fronte a delle emergenze. Il vero obiettivo dovrebbe sempre essere di consentire loro una vita degna mediante il lavoro. […] il politico [che] crea un posto di lavoro esercita una forma altissima di carità che nobilita la sua azione politica». Qui c’è spazio non per demonizzare, ma per ripensare anche il ruolo della finanza, che va concepito in un’ottica sempre più sussidiaria. Chiudo con un’indicazione di metodo che ci dà il Papa: «La vera saggezza presuppone l’incontro con la realtà», confrontiamoci su questa, non sui pregiudizi ideologici con i quali cerchiamo di aggirarla.

Deputato e presidente di Noi con l’Italia

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