In Sudan un golpe «cinese» e la maledizione del greggio
venerdì 12 aprile 2019

Non lo ammetteranno mai. Ma dietro ci sono loro, i cinesi. Il Sudan, alla fine degli anni Ottanta, è stato il primo approdo africano di Pechino. A caccia dei pozzi di petrolio dell’Upper Nile, delle concessioni e della garanzia della sicurezza con l’invio di detenuti cinesi condannati a morte a guardia dei pozzi in cambio dell’amnistia.

Questa è ormai storia, come lo è diventata quella del primo vero golpe certificato «Made in China», cioè quello dello Zimbabwe nel novembre 2017. Allora i guanti bianchi, con i quali hanno confezionato ieri il benservito a Bashir, non erano ancora in dotazione. I blindati di fabbricazione cinese nelle strade del centro di Harare, mentre il dinosauro Robert Mugabe passava la mano incredulo, li hanno infatti fotografati tutti. Già allora si parlò di una seconda fase della penetrazione cinese in Africa, quella dell’indirizzamento delle politiche locali. Ora il concetto è rafforzato, anche perché tutti sanno da tempo che a reggere le fila e la borsa del Paese è Pechino. Ma dietro alle proteste di piazza, questa volta, c’era ben altro.

La crisi economica che ha affamato la popolazione è solo uno degli elementi, non va infatti dimenticato che a dirigere la protesta non era l’inesistente opposizione bensì le classi medie, gli insegnanti, i professionisti. Stanchi di una situazione incancrenita da anni. La piazza che ieri non ha accettato che gli stessi che hanno servito per anni Bashir restino nei palazzi del potere. Per due anni, sospendendo ogni seppur minima garanzia costituzionale.

Passando da un regime presudoelettorale a un regime tout court. Si arriverà a un’esibizione muscolare degli stessi soldati che si sono rifiutati di sparare sulla folla, lasciando il lavoro sporco ai paramilitari di regime? E la Cina che farà? Dietro c’è sempre la fame di petrolio, la dispnea energetica esistenziale dell’economia di Pechino, povera di risorse e ricca di manodopera. Ma anche il controllo sociale è fondamentale. Qui però la questione si intreccia a filo doppio anche con un altro protagonista, recente, della storia regionale: il Sud Sudan.

Buona parte dei pozzi di petrolio della zona di confine tra il Sudan dell’allora dittatore Bashir e il neonato Stato meridionale sono in aree di fatto «non ancora definitivamente assegnate ». Miliardi di dollari che in buona parte spettano al Sud. Da lì le voci sempre più insistenti delle responsabilità esterne nel conflitto che apparentemente oppone il presidente Salva Kiir e il suo attuate primo vicepresidente Riek Machar. Che, ironia della storia, ieri erano entrambi riuniti in Vaticano per incontrare papa Francesco proprio mentre a Khartum andava in onda il più classico dei colpi di stato.

Entrambi nei mesi scorsi hanno promesso pace, firmato il sesto accordo di tregua. Ma la situazione resta tesissima: la gente muore ancora di fame e gli sfollati restano centinaia di migliaia. Una situazione che, affermano alcuni analisti locali, con la caduta di Bashir ora potrebbe, paradossalmente, peggiorare. L’uomo che per trent’anni ha passato più tempo a liberarsi dei rivali di corte che amministrare il Paese, il dittatore che in Darfur ha perpetrato le stragi più sanguinose avvalendosi della ferocia di miliziani islamici pronti a tutto, è infatti (anzi era) tra i garanti dell’accordo.

Come l’altro dinosauro dell’Africa centrale, l’ugandese Yoweri Museveni, che non ha mai nascosto lo sue mire sul Sud Sudan. Quel presidente che dalla crisi dei Grandi Laghi ha guadagnato ricchezze immani in materie prime con l’occupazione dell’Est del Congo. E che ora, a sua volta, ha perso un altro elemento della stabilità della regione: il super- ricercato dalla Corte penale, Omar Hasan Ahmad el-Bashir.

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