giovedì 22 ottobre 2020
Un lettore delle terre piacentine scrive degli sguardi sopra la mascherina (e oltre il Cielo). Marina Corradi riflette e racconta della stessa esperienza nella metropoli milanese...
Impariamo di nuovo, proprio ora a guardarci negli occhi, nel profondo

Ansa

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Gentile direttore,
al di là delle fiumane di parole di esperti o quasi, politici, opinionisti vari, fino ai negazionisti o positivisti, a me ha colpito e continua a colpire, di quel piccolo pezzetto di stoffa messo a copertura del viso e continuamente bistrattato e stiracchiato dagli opposti schieramenti di pensiero, un fatto magari piccolo ma molto concreto: ci si deve guardare negli occhi. Quante volte, imbarazzati, ci siamo trovati a scrutare occhi di chi regolarmente conoscevamo, ma... non abbastanza; non tanto, almeno, da distinguere, tra tutti gli altri il suo “specchio dell’anima”. Personalmente, in più di una occasione, mi sono stupito di fronte alla bellezza di occhi già visti, ma mai così in profondità. Mi sembra quasi che si attui, in quei brevi momenti di titubante silenzio, una sorta di ri–conoscimento; quasi a significare che la routine della nostra vita ci faccia dimenticare che “gli altri” non li conosciamo, in verità, mai definitivamente e che qualcosa c’è sempre da scoprire (come, del resto, su noi stessi). È un piccolo invito a credere nella novità che ogni giorno il Signore ci dà la grazia di vivere e che tante, troppe volte, noi sprechiamo.

Stefano Ziliani Monticelli d’Ongina (Pc)

Gentile signor Ziliani, grazie di questa osservazione, che il direttore ha condiviso con me mentre gliene stavo proponendo una quasi identica. Per questo mi ha offerto la possibilità di dialogare con lei. Con lei che scrive da un paese del Piacentino che immagino tranquillo, e silenzioso nelle sue strade. Allora quando si incontra qualcuno, mascherati come siamo, deve venire istintivo cercarne gli occhi, in un muto, come lei dice, «ri–conoscimento» dell’altro, più profondo di quanto fosse mai avvenuto. Devo dirle però che in una grande città non è proprio la stessa cosa. L’altro giorno ho fatto un lungo viaggio nel metrò di Milano, su quella linea nuova, la 5, che va senza il conducente. Ho da sempre l’abitudine di osservare attentamente le facce della gente, sui mezzi. Mi interessano gli occhi, le espressioni, le rughe, quella «smorfia sul viso» che, cantava Giorgio Gaber, «un uomo a confezionarla ci impiega una vita». Mi piace soprattutto osservare madri e padri e figli, e ritrovare gli stessi tratti, e vedere come il tempo e la vita li hanno trasformati. C’è in ogni faccia una storia, ed è bello lasciarsela raccontare. Ma questa volta sono scesa dal metrò intristita. Sotto la mascherina le nostre facce appaiono dimezzate: manca la bocca, le rughe sulle guance, manca la possibilità di un sorriso. Inoltre, diversamente da quanto accade in un paese, in una metropoli la gente nei giorni del Covid non guarda l’altro: guarda il cellulare oppure guarda fisso davanti, nel nero del finestrino, nel tunnel. Non si alzano gli occhi, a riconoscere magari un vecchio che ha bisogno di sedere. C’è come una cappa di malessere, come se ci fosse fra noi un nemico, per cui si evita perfino lo sguardo dell’altro: quasi anche di questo immateriale contatto avessimo ormai timore. Al ritorno ho ripreso il metrò. Ancora, nelle nostre facce dimezzate, quegli sguardi sfuggenti, o indifferenti. Che la paura possa renderci avari? Avari di umanità, di quel respiro largo e accogliente che è proprio degli italiani. E mentre il treno correva senza macchinista nel tunnel buio – mi piace mettermi al primo posto del vagone di testa, e vedere la marcia sui binari lucenti, dentro le viscere di Milano – ho pensato: bene, se la maschera lascia vedere solo gli occhi, guarderò quelli che incontro negli occhi. Lei ha ragione, signor Ziliani: «Stupito – scrive – di fronte alla bellezza di occhi già visti, ma mai così in profondità». Ho preso a guardare, al di sopra della maschera, gli occhi dei vecchi soli. Nessuno li accompagna e c’è qualcosa di sperduto in loro, come di bambini che non trovano la mano materna. Un doloroso e strano pensiero mi ha trafitto: un giorno anche i miei figli saranno così, e io non potrò aiutarli. Allora ho guardato a quegli sconosciuti con un po’ di tenerezza. Sopra la maschera, gli occhi pieni di vita delle figlie adolescenti e, accanto, quelli delle madri, così simili, ma trent’anni dopo: spesso come un po’ deluse. (In testa mi torna ancora quella canzone di Gaber: «La smorfia non è indulgente, affiora pian piano/ e non puoi neanche controllarla/ racconta spietatamente ciò che siamo»). Infine gli occhi mi sono caduti su una faccia riflessa dal finestrino nero, la mia. Sopra la maschera, i miei occhi. Allora mi sono vista, invecchiata, sciupata, ed è stato come se mi venisse detto: eppure Cristo guarda perfino te, con misericordia – e me ne sono sorpresa. Sopra a questa maschera, impariamo a guardarci negli occhi, a cercarci con gli occhi. Un esercizio di umanità: riconoscerci in uno sguardo, in silenzio, sconosciuti eppure vicini, eppure membra di un unico corpo. Generati da una comune profonda radice, di cui così spesso ci scordiamo.

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