Il vero cuore della questione
mercoledì 17 giugno 2020

Per comprendere fino in fondo il rilievo della sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti che ha stabilito in via definitiva l’illegalità della discriminazione sul lavoro delle lesbiche, dei gay, dei bisex e dei transgender, dobbiamo distinguere il piano giuridico da quello sociale. Giuridicamente la (molto controversa) sentenza, per essere ben compresa, richiede una buona conoscenza dell’ordinamento federale statunitense, conoscenza riservata in Italia a pochi specialisti.

Sul piano sociale, invece, la sentenza ha un rilievo di prim’ordine, anche nel nostro Paese e che tutti possono percepire, perché, facendo rientrare nel divieto di discriminazione sulla base del "genere sessuale" anche la discriminazione sull’"orientamento sessuale", fa trionfare uno dei punti centrali delle battaglie del movimento Lgbt (per l’appunto: lesbiche, gay, bisex e transgender). In Italia la questione si intreccia con quella del controverso disegno di legge sulla omotransfobia, che, come è noto, ha sollevato meditate critiche da parte della Cei. È probabile che la sentenza americana rinfocolerà ulteriormente un dibattito che, finora, per fortuna, si è mantenuto, tranne qualche eccezione, in termini notevolmente moderati.

Anche in Italia sarebbe doveroso distinguere il piano giuridico da quello sociale. Sul piano strettamente giuridico non esiste in Italia una discriminazione contro chi si riconosce in una condizione Lgbt che sia davvero meritevole di un intervento legislativo di carattere penale. Sul piano sociale la questione è diversa. Dobbiamo ammettere che l’omotransfobia non è un’invenzione del movimento Lgbt, né una dinamica sociale irrilevante: anche se ha nel nostro Paese una marginalità statistica (come peraltro altre forme di discriminazione) essa attiva lacerazioni nel sociale, dolorose e spesso violente, che devono essere affrontate e «contrastate senza mezzi termini», come sottolinea anche il comunicato della Cei. Ma qual è il modo migliore per contrastare, in Italia, l’omotransfobia?

Il nitido e severo comunicato della Cei reputa l’eventuale approvazione di una nuova legge contro l’omotransfobia inutile (perché si sovrapporrebbe ad altre norme già in vigore in Italia e ben capaci di controllare il fenomeno ) e dannosa (perché potrebbe alimentare, sia pure contro le intenzioni dei proponenti, limiti alla libertà di manifestazione del pensiero). Infatti, avvertono i vescovi italiani, una volta approvata una nuova normativa sulla omotransfobia, senza radicali emendamenti ai testi sinora noti, potrebbe essere perseguito penalmente chi difendesse la famiglia eterosessuale e criticasse l’omogenitorialità: un timore tutt’altro che peregrino, anche a causa dell’interpretazione estensiva che alcuni magistrati potrebbero dare della nuova legge, ancorché misurata nelle sue espressioni.
Qualcosa del genere è avvenuto diverse volte in passato e sta già avvenendo in altri Paesi occidentali, che hanno votato leggi simili. Valutazioni più mirate saranno possibili solo la prossima settimana quando sarà presentato il testo unificato proposto all’esame del nostro Parlamento.

Appare però chiaro che il cuore della questione non è il contrasto sociale all’omotransfobia, ma lo statuto epistemologico dell’omosessualità e di un nutrito ventaglio di parafilie (tra cui appunto la bisessualità o la pulsione al mutamento – fisico o sociale – della propria identità sessuale anatomica). Si tratta di questioni antropologiche ancora assolutamente aperte (malgrado l’opinione contraria del movimento Lgbt) e il rischio di imbavagliarne ogni forma di approfondimento scientifico e dottrinale attraverso norme penali è reale e molto pericoloso. Non si tratta solo di non porre limiti alla libertà di manifestazione del pensiero, che è già un diritto costituzionale primario, o di difendere la famiglia 'tradizionale', ma di non porre limiti alla ricerca antropologica, per delicata che essa sia, su temi che solo da poco sono emersi alla coscienza di tutti e che richiedono ancora lunghi e seri approfondimenti. Una ricerca antropologica sulla sessualità umana, purché scientificamente seria, non può mai avere un carattere violento o aggressivo: merita rispetto, sia che promuova i valori del movimento Lgbt sia che ne mostri i limiti o gli errori. E se il diritto del lavoro (come mostra ad abundantiam, la sentenza americana) ha le sue buone ragioni per intervenire in materia per evitare discriminazioni, il diritto penale, in questo ambito, soprattutto in Italia, non ha proprio niente da dire.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI