venerdì 24 dicembre 2021
Il giorno di Natale di 30 anni fa sul Cremlino veniva definitivamente ammainata la bandiera rossa con la falce e il martello. L’inizio di un tempo di incertezze e nostalgie
Le bandiere sovietica e russa sul Cremlino durante il passaggio dall’una all’altra

Le bandiere sovietica e russa sul Cremlino durante il passaggio dall’una all’altra - Ansa

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Alle ore 18 del giorno di Natale di 30 anni fa il presidente dell’Unione Sovietica e da pochi mesi ex segretario generale del Pcus Mikhail Gorbaciov firmava le proprie dimissioni. Trentacinque minuti dopo, la rossa bandiera con la falce e martello dorata e la stella a cinque punte che dal 1923 svettava sopra il Cremlino veniva ammainata e sostituita dal tricolore russo. Il giorno dopo il Soviet Supremo sanciva la dissoluzione dell’Unione Sovietica. Un mosaico di nazioni un tempo corona del vasto impero russo – Ucraina, Bielorussia, Moldavia, Estonia, Lettonia, Lituania, Armenia, Georgia, Azerbaigian, Kazakistan, Uzbekistan, Turkmenistan, Kirghizistan, Tagikistan – si staccava definitivamente da quella che fino a poco prima era stata la seconda superpotenza mondiale. Non erano bastate la glasnost e la perestroika – le due parole magiche con cui Gorbaciov aveva provato a riformare lo Stato –, la fine della Guerra Fredda e il ritiro dall’Afghanistan per convincere la gerontocrazia al potere nell’Urss che l’unico modo di sopravvivere al comunismo nato con la Rivoluzione di Ottobre e trasformatosi in un elefantiaco apparato di corruzione, sottomissione e omertosa condiscendenza era quello di sposare la modernità; ovvero quella democrazia che in Occidente garantiva – pur con le inevitabili storture che la visione liberale del mondo conservava – stabilità e prosperità economica.

Nell’Urss del dopo Stalin, di Kruscev, di Breznev, poi di Andropov e Cernenko le cose erano andate diversamente. Un lento ma inarrestabile declino, accelerato a partire dalla fine degli anni Novanta dalla corsa agli armamenti innescata da Ronald Reagan che Mosca non era in grado di reggere. Un declino iniziato quattro anni prima del crollo del Muro di Berlino e proseguito con la sistematica dissoluzione di tutti i pezzi che componevano il domino sovietico, a partire dalla Polonia. E se Gorbaciov piaceva a noi occidentali, la sua figura – come racconta con scrupolo dolente il premio Nobel Svetlana Aleksievic nel suo Tempo di seconda mano – lasciava molti dubbi nell’animo dell’homo sovieticus, trasmettendogli un diffuso malessere e per la prima volta la concreta paura del futuro. Non senza ragione: quindici repubbliche, quello che con oltre 22 milioni di chilometri quadrati di territorio, più di 290 milioni di abitanti con 200 lingue e dialetti era il Paese più grande del mondo, collassava. Non a caso l’apparato comunista, il partito, le forze armate, una vecchia guardia non meno disorientata dei milioni di russi su cui aveva regnato si era adoperata per disarcionare Gorbaciov con un golpe. L’uomo della perestroika sopravvisse pochi giorni prima di essere congedato. Al suo posto si fece strada Boris Eltsin, nelle cui mani Gorbaciov rassegnò le dimissioni quel fatale 25 dicembre, consegnandogli il potere. Ma era tutto inutile. L’impero sovietico non esisteva più. Al suo posto era sorto un far west dove spuntarono dal nulla oligarchi feroci e affamati di denaro e di potere, un tuffo violento nell’economia di mercato che l’anima russa non poteva comprendere e dal quale era comunque esclusa. Un decennio tumultuoso all’ombra di Eltsin che convalidava lo sfacelo di una nazione.

Sarebbero occorsi altri otto anni perché una figura nuova si affacciasse sul proscenio russo cambiandone il volto. Nessuno o quasi conosceva all’epoca l’anonimo apparatchik di Leningrado Vladimir Vladimirovic Putin, già ufficiale del Kgb distaccato a Dresda, quindi braccio destro del sindaco della ribattezzata San Pietroburgo Anatolij Sobcak, quindi ministro di Eltsin e infine erede designato, dal 31 dicembre 1999 salito al potere prima come premier poi come presidente della Federazione Russa. Sono passati trent’anni da quel 26 dicembre 1991. E l’Urss non c’è più. Al suo posto, una superpotenza che l’Occidente ha compreso forse solo a metà. Quella “democrazia incompiuta”, quel “regime di transizione” che Washington e i suoi alleati avevano considerato un mero passaggio verso una società liberale si è lentamente trasformata in un ibrido, una democratura (sgraziato neologismo a indicare una democrazia autoritaria spesso vicina alla dittatura – l’esempio bielorusso di Lukashenko insegna) dove la libertà di stampa, i diritti umani, la voce del dissenso hanno molti meno margini rispetto alle democrazie come le intendiamo noi.

Ma Putin cavalcava altre ambizioni. Non a caso già nel 2005 disse a sorpresa: «La dissoluzione dell’Unione Sovietica è stata la più grande catastrofe geopolitica del ventesimo secolo: un dramma per decine di milioni di connazionali abbandonati fuori dai confini della Russia ». Per tutti ormai è il nuovo zar, e lo è diventato giocando sulla duplice nostalgia della Russia zarista e di quella sovietica, grazie anche all’appoggio dottrinale del Patriarcato, non senza un retroterra mistico- letterario che si appoggia a figure opache come Ivan Ilyin, Lev Gumilëv e Alexander Dugin, tutti e tre in qualche modo profeti di una missione salvifica e redentrice per la Nuova Russia, una terza via fra “l’immoralità pagana” dell’Europa e l’orrore del bolscevismo, il cui destino manifesto – ed è stato Gumilëv, figlio della poetessa Anna Achmatova, a sostenerlo – sono i leggendari “calzari asiatici” invocati dal monaco-filosofo Konstantin Leontev, (che nel saggio L’Est, la Russia, gli Slavi già nel 1865 invitava i russi «a scuoterne via la polvere romano-germanica»). Quanto a Dugin, intellettuale in bilico fra Heidegger ed Evola, è il pilastro dell’autoritarismo nazionalistico di destra cui Putin liberamente si ispira. Da qui l’interessata alleanza con il ceto oligarchico che lo ha aiutato a salire e non ha più avuto la forza per farlo scendere: i tycoon della Yukos, Lebedev e Chodorovskij, il magnate dell’Aeroflot Berezovskij, fino all’ex colonnello del Kgb Litvinenko, avvelenato dal polonio 210, e la giornalista di Novaja Gazeta Anna Politkovskaja, assassinata dai sicari nell’ascensore del suo palazzo, fino ad Aleksej Navalny, non sono che le figure più note della lunga schiera degli avversari di Putin caduti sul campo.

Zar e grande giocatore d’azzardo, Putin è l’architetto di un patto sociale stipulato con il popolo fondato sullo scambio fra sicurezza e libertà. Una libertà – come si ebbe a dire negli ultimi anni del Novecento – che in mille anni i russi non avevano conosciuto che per quattro mesi: dall’ottobre 1917 al gennaio 1918. Troppo poco per affezionarsene. Più facile invece applaudire alla crescita del prestigio internazionale russo, sovente basato sulla provocazione e sull’uso della forza (si vedano la Crimea, la Georgia, le repubbliche separatiste del Donbass in Ucraina), tali da ridestare quell’anima sovietica che mai si è del tutto addormentata. La stessa modifica dell’incipit dell’inno nazionale che Putin ha imposto – Rossija svjašcennaja naša deržava, «Russia, il nostro sacro Paese» – la dice lunga. Come la dice lunga quel machismo bellico con cui lo zar ha incantato decine di migliaia di giovani, e perfino i loro padri: molti dei quali, secondo un sondaggio demoscopico recente, sognano che i loro figli entrino a far parte delle forze speciali e ammirano senza paura Stalin, non più oscurato dalla vergogna delle purghe e dei milioni di morti di carestia ma considerato un padre della patria come Pushkin considerava Pietro il Grande.

L'imperialismo di Breznev spaziava da Cuba all’Africa, dagli euromissili al sostegno militare ai Paesi non allineati. Quello di Putin non è granché cambiato. Dal Baltico alla Libia, dalla Siria ai Caraibi, dalla frontiera ucraina alla Bielorussia, l’aspirazione è sempre la stessa: competere sullo scacchiere mondiale allo stesso livello degli Stati Uniti. Nonostante la crisi economica, le sanzioni occidentali, il calo vistoso del consenso interno, il braccio di ferro con l’Europa sul gasdotto NordStream 2, lo zar Putin ci è abbastanza riuscito. «Secondo l’Occidente – ha fatto rimarcare nella conferenza stampa di fine anno – la Russia è ancora troppo grande. In realtà i Paesi europei sono diventati più piccoli: non grandi imperi, ma piccoli Paesi, di 60-80 milioni di persone. Per questo premono costantemente ai nostri confini. Ma un allargamento a Est della Nato è inaccettabile». Apertamente non lo dice, ma è fuor di dubbio che una sola cosa davvero gli preme: ricostruire l’Unione Sovietica.

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