venerdì 21 gennaio 2022
Dopo il colpo di stato, molti civili hanno rinunciato alla non-violenza nel tentativo disperato di conservare la libertà. Un sacerdote: il mondo non chiuda gli occhi
Manifestazione di giovani in Myanmar contro la repressione del regime

Manifestazione di giovani in Myanmar contro la repressione del regime - Ansa

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«I nostri giovani nati dopo le proteste studentesche e la repressione del 1988, che nell’ultimo decennio avevano assaggiato la libertà sotto la guida di Aung San Suu Kyi, non avrebbero mai immaginato di dovere prendere le armi e combattere. Non avrebbero mai pensato di doversi rifugiare nella foresta e avere un addestramento militare. Sono ragazzi come altri nel mondo, ai quali manca un letto confortevole, mancano i giochi online, mancano i pasti condivisi con i genitori, ma che hanno sacrificato tutto per farla finita con la dittatura militare».

Il mio interlocutore, sacerdote in una diocesi coinvolta nella guerra civile del Myanmar, non può mostrare la sua identità ma non può mancare di parlare della sorte di un Paese, di una popolazione variegata ma unita ora contro il comune avversario in divisa: la dittatura imposta nuovamente quasi un anno fa, il primo febbraio 2021, quando dei generali hanno visto minacciati i loro privilegi e hanno considerato che la situazione internazionale avrebbe loro permesso di agire con le minori conseguenze possibili. Potrebbero però avere sbagliato i loro calcoli. «I militari hanno creduto che sparando alla testa di qualche manifestante e mostrando la loro crudeltà, in due-tre mesi la popolazione li avrebbe accettati nuovamente. Contrariamente al passato, oggi ogni uccisione e ogni atto efferato sono visibili in tutto il paese e in tutto il mondo in pochi minuti e questo alimenta la determinazione dei loro oppositori, non li fa sentire isolati – conferma il sacerdote –. Tanti di quelli che hanno dato la vita finora erano giovani che sognavano in grande. Medici, ingegneri, professori, avvocati, laureati, imprenditori che si sono donati alla rivoluzione come i loro compagni sopravvissuti che agiscono per il futuro delle prossime generazioni: 'Se non cancelliamo questa dittatura, non ci sarà più un altra possibilità; bisogna agire adesso o mai più', dicono».

I rischi sono elevati, perché sembra chiaro che la scelta per la società civile e per una classe politica ispirata dalla lunga lotta nonviolenta condotta da Aung San Suu Kyi e dall’esempio di migliaia di “martiri” della dittatura tra il 1962 e il 2010, è oggi tra una reazione che sempre più va armandosi, o di una resa che aprirebbe a altri decenni di sottomissione ai generali e alla miseria. L’opposizione al “dato di fatto” del golpe, per la sordità del regime va ora tra- sformandosi da protesta di piazza, aperta alla facile repressione di uno degli eserciti più numerosi e agguerriti dell’Asia, in quella “rivoluzione” a cui ha chiamato dalla clandestinità il Governo di unità nazionale (Gun) formato da esponenti della politica democratica sfuggiti agli arresti e al carcere che hanno invece colpito Aung San Suu Kyi e la maggior parte della leadership della sua Lega nazionale per la democrazia. Tre le direttive: boicottaggio del regime, unità d’intenti tra tutte le componenti della società birmana, risposta decisa che chiarisca alla giunta guidata dal generale Min Aung Hlain che non vi sono alternative alle prospettiva democratica. Una risposta non più nonviolenta ma affidata alle Forze di difesa popolare, centinaia di gruppi emersi spontaneamente a protezione della popolazione civile che vanno coordinandosi con il debole apparato militare del Gun e con le milizie etniche che dopo anni di tregua hanno riaperto le ostilità.

Una cosa è certa: nessuna delle parti può permettersi di cedere, perché per ciascuna potrebbe essere l’ultima occasione di determinare le prospettive del Paese e dei suoi 54 milioni di abitanti. Il vincitore prenderebbe tutto, lo sconfitto tra i vertici delle forze armate e la Lega nazionale per la democrazia che identifica anche nelle sue contraddizioni la democrazia birmana, verrebbe decimato nelle piazze, nei tribunali e nelle corti marziali o indirizzato all’esilio. Nonostante prosegua l’offensiva, soprattutto utilizzando l’arma aerea, oggi il regime è isolato verso l’esterno (se non per il flusso di beni, carburanti, munizioni e vaccini soprattutto dalla Cina), assediato all’interno. Agisce con durezza ma è esposto a ritorsioni, privato della collaborazione di intere categorie professionali e del settore pubblico e privo di interlocutori che possano mediare con gli avversari. Può alimentare la brutalità e la sete di potere dei suoi ranghi solo con promesse di sicurezza e benefici che rischiano di annullarsi nel collasso del Paese dove disillusione, fame e paura vanno trasformandosi in potenti spinte a chiudere la partita con i militari golpisti e riprendere la ricerca di un progresso diffuso e condiviso.

«Da aprile hanno cominciato arrestare tutti coloro che partecipavano alle proteste o che non si recavano al lavoro. Diversi sono morti sotto tortura durante gli interrogatori, altri sono stati condannati a pene detentive – ricorda ancora il sacerdote –. Perciò molti giovani non hanno più potuto dormire a casa loro. Con l’aumento delle retate del regime si sono dovuti trasferire in luoghi sicuri e infine nei territori controllati dalle etnie minoritarie che li hanno accolti. Con gravi rischi, perché quando le truppe rastrellano i villaggi per cercare i fuggitivi, i soldati entrano nelle case, picchiano le persone e saccheggiano le proprietà. Se trovano dei ricercati questi vengono uccisi, violentati o torturati. Molti civili sono spinti a rifugiarsi nelle foreste ma le atrocità costringono a reagire, la crudeltà rafforza la resistenza. Gli abitanti delle regioni di Sagaing (a poca distanza dalla seconda città del Paese, Mandalay) e Magwe non sono stati addestrati dalle milizie etniche, ma sono semplici civili che prendono le armi per difendersi, anche se magari hanno solo un vecchio fucile da condividere in cinque-dieci combattenti».

Contadini che fino a pochi mesi fa non avevano mai imbracciato un’arma ora tendono imboscate, minano le strade dove transitano i convogli militari e i loro ordigni, prima pressoché inutili, ora sono più perfezionati e fanno vittime: centinaia secondo la resistenza. Tuttavia, per la resistenza e anche per il sacerdote birmano, questa non è una guerra civile perché la gente non può combattere ad armi pari contro chi usa mitragliatrici, razzi, cannoni, carri armati, elicotteri ed aerei da combattimento. «I fucili dei civili non sparano quando piove perché la polvere da sparo si bagna, le loro armi sono rudimentali ma hanno dalla loro determinazione e conoscenza del territorio e mantengono nell’insicurezza le truppe. In diversi villaggi incendiati dai soldati, gli anziani sono bruciati vivi perché non possono fuggire e queste atrocità incrementano la partecipazione ai gruppi di difesa civile, donne incluse – . Il popolo birmano è pacifico, ma è anche l’incapacità della comunità internazionale a intervenire concretamente, a spingerlo a difendersi con ogni mezzo».

Occorre ricordare che la situazione di conflitto e la crescente scarsità di beni necessari e di medicinali convergono nel creare una crisi umanitaria in aggravamento, con 400mila profughi perlopiù rifugiati nella foresta, con le limitate iniziative umanitarie fortemente ostacolate dal regime e a rischio – gli uni e le altre – di essere coinvolti nelle azioni militari. Una crisi che non può trovare sollievo in una fuga oltreconfine per la chiusura delle frontiere, a partire da quella con la Thailandia, Paese che in passato ha accolto decine di migliaia di profughi in fuga dalla dittatura, o con il Bangladesh, dove già vivono 900mila Rohingya sfuggiti alle campagne di genocidio delle forze armate birmane.

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