Il rompicapo ungherese
venerdì 8 marzo 2019

Rejtvény. Nell’inaccessibile idioma magiaro si traduce così il sostantivo "rompicapo". Perché l’Ungheria è un autentico rompicapo. Per l’Europa, per la Germania, Per il Partito popolare europeo, per tutti. E non soltanto a causa di quell’ostentata simpatia nei confronti di – marchio di fabbrica orbaniano – certe democrazie illiberali come la Turchia di Erdogan e la Russia di Putin, e nemmeno per l’altrettanto ostentata avversione nei confronti dell’accoglienza di profughi e migranti, visti come un attentato alla purezza etnica e alla stabilità sociale (posizione condivisa con i Paesi del gruppo di Visegrád – Repubblica Ceca, Slovacchia e Polonia – cui si è ormai aggiunta l’Austria e, di fatto, la Baviera del leader Csu Horst Seehofer).

No, l’Ungheria di Orbán è un rompicapo perché non si può lasciarla fuori e nemmeno tenerla dentro il recinto delle democrazie. E se da un lato il candidato forte del Ppe alla presidenza della prossima Commissione Ue, il tedesco Manfred Weber, impone al premier ungherese tre condizioni per evitare l’espulsione dalla famiglia dei popolari (sospendere la martellante campagna contro la Unione e i suoi leader, scusarsi con gli altri partiti europei membri del Ppe e revocare la cacciata da Budapest della Ceu, l’Università finanziata da George Soros), dall’altro Fidesz, la formazione politica di Orbán, ribatte che «la difesa dei valori cristiani e lo stop all’immigrazione è più importante della disciplina di partito». Non cederemo, dicono quelli di Fidesz, l’Europa faccia pure come vuole. Non a caso Orbán in un’intervista alla "Welt" ha leninianamente definito come «utili idioti», quei partiti confratelli che chiedono la sua espulsione dal Ppe.

Perché li chiama così? Perché Orbán per primo non vuole una frattura nel Ppe (anche se la componente di Fidesz è esigua: 11 eurodeputati, che potrebbero al massimo salire a 13 alle elezioni di maggio). Ma questa è una spiegazione parziale. Quella più profonda sta nei dati economici. Se Belgio, Lussemburgo e Olanda sono il paradiso fiscale dei Vip, con l’introduzione della flat tax l’Ungheria è diventata un Eldorado per le imprese, al pari quanto meno dell’Irlanda. Basta un giorno per aprire una società e 72 ore perché venga omologata, pratiche fiscali comprese. Ma soprattutto le aliquote sul reddito di impresa non superano il 9%, e se l’azienda investe in ricerca le imposte scendono al 4,5%. Non solo. A dispetto dell’immagine che offre all’estero, l’Ungheria ha un sistema-Paese che funziona, che attrae capitali e investimenti; stando all’archivio dell’Itl Group, sul territorio ungherese operano tuttora più di 2.800 aziende italiane con oltre 26mila dipendenti e un fatturato che sfiora i 3 miliardi e mezzo di euro: un terzo commerciano all’ingrosso e al dettaglio, ma non mancano le attività immobiliari e manifatturiere.

Noi italiani non siamo i soli ad aver scommesso sulla munificenza ungherese (che anche alle persone fisiche riserva un’imposta che non supera il 15%). Molto più agguerriti di noi – e si capisce, la liaison fra Budapest e il mondo germanico ha radici antiche – ci sono i tedeschi: Opel, Audi, Mercedes, come dire il nerbo dell’industria manifatturiera tedesca, danno lavoro a più di 20mila operai e producono più di 500mila autovetture all’anno per 26miliardi di euro. In attesa che la Bmw dia il via alla produzione di auto elettriche con altre 150mila assunzioni. Un Eldorado, appunto, e un bel pasticcio insieme. «La Germania – dice una fonte diplomatica a Bruxelles – non si può permettere una rottura con Budapest».

E qui torna in scena il mai risolto dilemma: che Europa vorremmo, un’Europa degli ideali o un’Europa club di nazioni che commerciano fra loro senza interferire nelle politiche domestiche? O, ciceronianamente, quousque tandem, fino a quando possiamo considerare europeo un leader che con una mano guida gli inni alle democrature asiatiche e con l’altra intasca sussidi europei che coprono il 2,5% del suo Pil? Un bel dilemma. E non siamo così sicuri che verrà sciolto nei prossimi giorni, alle assise del Ppe. E forse nemmeno dopo, nemmeno quando il voto di maggio ci rivelerà quale Europa è uscita dalle urne.

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