Il ritorno del Gigante
martedì 1 novembre 2022

«Penso che il Brasile possa giocare un ruolo straordinario nel Continente americano». A vent’anni e tre giorni da quando le ha pronunciate, poco dopo la prima vittoria, le parole di Luiz Inácio Lula da Silva non hanno perso attualità. Anzi, per certi versi, il peso del Gigante del Sud nel contesto internazionale, può risultare oggi ancora maggiore. A cominciare, ovviamente, dalla sterminata regione compresa tra il Rio Bravo e la Terra del Fuoco. Le sue sei principali economie sono governate da leader progressisti.

Certo, si tratta di figure molto diverse fra loro. Si va dal radicale “vecchio stile” Pedro Castillo in Perù al peronista Alberto Fernández in Argentina al populista Andrés Manuel López Obrador in Messico. Maggiori sintonie si profilano con la cosiddetta “nuova sinistra” del cileno Gabriel Boric e del colombiano Gustavo Petro, capace di coniugare le istanze classiche per la ridistribuzione e la giustizia sociale con domande più innovative, quali la protezione dell’ambiente, l’integrazione delle minoranze e la parità di genere. Questioni, queste ultime, sottolineate da Lula nel primo discorso dopo la conferma del “triplete”, la terza vittoria presidenziale, ottenuta con il maggior numero di voti nella storia del Paese – sessanta milioni – e il minor stacco dal rivale, meno di due punti. E confermate dall’annuncio del giorno dopo dell’invio di propri rappresentanti di alto profilo all’imminente vertice Onu di Sharm el-Sheikh contro il cambiamento climatico (Cop27).

Se, al già composito schieramento sinistreggiante, si sommano Paesi più piccoli come Honduras e Bolivia e i “superstiti” Cuba, Nicaragua e Venezuela, il panorama si rivela in tutta la sua eterogeneità. Per molti esperti, dunque, come il sociologo Manuel Canels, è prematuro parlare di un ciclo progressista unitario. E per questo, il Brasile è determinante. Il Paese-Continente, con i suoi 215 milioni di abitanti e la sola economia di San Paolo al quarto posto regionale per volume, però, è l’unico attore in grado di trasformare singole esperienze in un movimento coordinato. Di ridare slancio all’integrazione, impantanata da un decennio nei veleni delle rivalità nazionali. E anche di influire nel contesto internazionale. A partire dalla crisi ucraina.

Corteggiato da Vladimir Putin, partner affidabile per i cinesi ma anche buon vicino degli Stati Uniti d’America, il Brasile potrebbe ritagliarsi un margine di manovra, per quanto stretto. Il ritorno al vertice del «presidente più popolare della Terra», come l’ha definito Barack Obama, capace di farsi ascoltare dagli abitanti delle favelas come dai broker di Wall Street, può aiutare a portare la voce del Sud del mondo, sempre più flebile, nelle stanze del potere globale.

La “fenice Lula” ne è consapevole, come conferma il discorso proferito nel giorno della terza vittoria: « Il mondo ha nostalgia del Brasile. Nostalgia di quel Brasile sovrano, che parlava da pari a pari con i Paesi più ricchi e potenti. E, al contempo, contribuiva allo sviluppo di quelli più poveri».

Il momento è cruciale. La destra, nelle sue varianti populiste e radicali, avanza in Europa. Polonia e Ungheria non sono più eccezioni. Grecia, Svezia e, infine, Italia sono governate da forze conservatrici e ultraconservatrici, in Spagna e Francia queste ultime incalzano gli esecutivi in carica. Anche a Washington si profila un drastico ridimensionamento dei democratici alle prossime elezioni di Midterm. La ricomparsa del Gigante potrebbe costituire un contrappeso al liberismo, di segno, però, non nazionalista. «L’uomo che in vita è riuscito a lottare contro l’avversità», come l’ha definito il “Financial Times”, l’ex lustrascarpe capace di farsi strada in una delle nazioni più diseguali del pianeta, sarà in grado di corrispondere a simili aspettative? La risposta dipende da quanto Lula saprà trasformare in politica la conclusione del primo discorso da eletto: «Non posso farcela da solo. Avrò necessità di tutti: partiti politici, lavoratori, imprenditori, parlamentari, governatori, persone di ogni religione». Curare le ferite di un Brasile in frantumi, ricostruire l’«amicizia sociale» per parafrasare papa Francesco, potrebbe rivelarsi, però, una battaglia ben più dura di quella giudiziaria affrontata per uscire dal baratro di “Lava Jato” e tornare presidente.

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