Il rischio si fa serio
venerdì 14 aprile 2017

Nel clima quasi da reality che accompagna da mesi l’Amministrazione Trump non è sempre facile scorgere gli elementi strutturali delle mosse statunitensi, soprattutto delle più recenti. La repentina caduta in disgrazia del consigliere Bannon e la crescente frustrazione dei gruppi isolazionisti o della destra più radicale, il bombardamento in Siria, le nuove tensioni con la Russia e le aperte minacce di azione militare contro la Corea del Nord sono tutti elementi che mostrano il riallineamento strategico in atto a Washington.

Per mesi si è risposto a chi avanza paralleli fra lo stile Donald Trump e quello di Ronald Reagan – il presidente che rilanciò e vinse la Guerra fredda – che la differenza sta nella squadra attorno ai due: un solido, preparato e arcigno team di repubblicani che credevano nella dottrina del Roll-Back (ossia di una politica più aggressiva contro un’Unione Sovietica di cui avevano con acutezza scorto le debolezze mascherate) attorno a Reagan e un folkloristico gruppo di dilettanti attorno al nuovo presidente.

Ma ora è evidente come si stia formando a Washington un nucleo politico-militare (con la triade di generali Mattis, Kelly e McMaster) che – piaccia o non piaccia – riecheggia gli anni 80, per quanto l’umoralità e l’impreparazione di Trump debbano invitare tutti alla cautela. Più ancora che i muscoli mostrati in Siria, la spia di questo orientamento è fornita dall’invio di una squadra navale verso la Corea. E anche in questo caso è bene capire la differenza fra la superficie dei fatti – ossia gli avvertimenti, le dichiarazioni mediatiche, il rullo di tamburi, la super-bomba sganciata sull’Afghanistan e le minacce coreane – dai veri obiettivi in gioco. Certamente, Washington vuole mostrare al pericoloso e irresponsabile regime di Pyongyang che le provocazioni rischiano di essere raccolte e i bluff visti, e che Washington si riserva ogni tipo di reazione unilaterale, finanche quella militare.

Ma la partita più profonda è con la Cina, la quale è impegnata da anni in un’ambiziosa strategia di interdizione dello spazio aeronavale, definita spesso, con termine immaginifico, "la mazza dell’assassino". In termini militari si chiama Anti Access/Area Denial (A2/AD), ossia la volontà di Pechino di precludere lo spazio marittimo attorno alla regione dell’Asia Pacifico alle flotte statunitensi. Una strategia di lungo periodo che, se di successo, minerebbe non solo la supremazia statunitense nella regione, ma potrebbe svuotare le alleanze che Washington ha con tanti paesi asiatici, dal Giappone alla Corea del Sud, alle Filippine a Taiwan. Oggi sono proprio le armi convenzionali e nucleari americane a fare da "ombrello strategico" contro la crescita cinese. I comandi militari statunitensi hanno preso molto sul serio questa minaccia strategica. Qualcuno dice troppo.

Ecco quindi che il dispiegamento aeronavale in quelle acque acquisisce allora un significato più profondo: un avviso sì al bizzarro dittatore nordcoreano Kim Jong-un, ma anche la dimostrazione che la bandiera a stelle e strisce penetra tranquillamente, quando vuole, nello spazio vitale cinese. Un messaggio rivolto tanto ai cinesi quanto ai propri alleati asiatici, che guardavano dubbiosi alle promesse di disimpegno fatte da Trump in campagna elettorale.

Certo, la mossa non è priva di rischi. Innanzitutto perché la Nord Corea non è un attore razionale e basta poco, in una fra le regioni più popolose e armate del mondo, per scatenare reazioni che avrebbero effetti imprevedibili, ma in ogni caso spaventosi. Basti pensare che Seul è a tiro delle artiglierie nordcoreane (decine di migliaia di bocche da fuoco che potrebbero scatenare l’inferno su quella città in brevissimo tempo, anche senza ricorre all’atomica). A un livello più strategico, la maggiore aggressività verso la Cina, che ricorda appunto la politica del Roll-Back anti sovietico della destra reaganiana, verrebbe tentata non contro una potenza in declino come allora, ma contro una Cina in crescita e che ritiene che il tempo sia dalla propria parte. Insomma, tutto sembra invitare alla prudenza e alla moderazione quando si gestisce la regione del Pacifico. Che non sembrano essere le doti migliori dell’Amministrazione Trump.

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