martedì 31 ottobre 2017
L'allarme dell'Organizzazione meteorologica mondiale. Il 2016 anno nero: per trovare concentrazioni così elevate di anidride carbonica si deve tornare a 3 milioni di anni fa
Smog vicino a una discarica a Calcutta, India (Ansa)

Smog vicino a una discarica a Calcutta, India (Ansa)

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L’ultima volta che la concentrazione di anidride carbonica nell’aria è stata superiore agli attuali livelli, sulla terra comparivano i primi elefanti, gli ippopotami e probabilmente i cavalli, mentre le creature più simili agli esseri umani erano gli australopitechi e altri ominidi, che oggi definiamo homines abiles. Allora le temperature erano in media di due o tre gradi centigradi superiori a quelle dei nostri tempi, molti dei ghiacci oggi presenti in Groelandia e nell’Antartide erano 'sciolti' e il livello del mare era di dieci o venti metri più alto di quello attuale. Era l’epoca che i geologi chiamano Pliocene, ed è finita da circa 3 milioni di anni.

Ma a livello climatico ci stiamo tornando, ha avvertito ieri l’Organizzazione meteorologica mondiale (Omm) delle Nazioni Unite presentando l’ultima edizione del bollettino sulle emissioni di gas serra. Un documento pieno di dati allarmanti, per quanto da tempo siamo abituati ai toni apocalittici sulle prospettive del pianeta. Le stazioni di controllo che raccolgono i dati sulla qualità dell’aria in tutti i continenti nel 2016 hanno rilevato una media globale di 403,3 particelle di CO2 per milione di particelle d’aria (l’unità di misura è ppm). Sono 3,3 ppm in più rispetto ai livelli del 2016 ed è un livello del 145% superiore a quello dell’epoca “pre industriale”, cioè prima del 1750. In media nell’ultimo decennio la quantità di anidride carbonica nell’aria è aumentata di 2,21 ppm all’anno. Lo stesso bollettino ricorda che il “forzante radiativo” dei gas serra, cioè la loro capacità di alterare il bilancio tra l’energia che entra e quella che esce nello scambio tra terra e atmosfera, è aumentata del 40%. L’80% di questo aumento si può attribuire all’anidride carbonica.

Non si può parlare di un mutamento fisiologico della chimica dell’aria del pianeta. L’Omm da diversi anni è in grado di calcolare quanti gas serra ci fossero nell’aria fino a 800mila anni fa, analizzando l’aria intrappolata in bolle nei più profondi ghiacci dell’Artico. In nessuna di queste analisi si ottengono tassi di concentrazione di CO2 più elevati di quelli attuali. Anche l’aumento di anidride carbonica che è avvenuto dopo il termine dell’ultima era glaciale, circa 12mila anni fa, non è paragonabile a quello attuale: allora si era passati nel giro di un millennio da 240 a 270 ppm, mentre solo dal 1960 ad oggi c’è stato un aumento da 320 a 400 ppm. Nella storia i rapidi aumenti naturali di CO2 hanno sempre preceduto aumenti delle temperature. Considerato che stiamo assistendo all’aumento più rapido mai rilevato, è impossibile prevedere verso cosa stiamo andando. «C’è il potenziale – avverte l’Omm – per un imprevedibile cambio nel sistema climatico, che può portare a profondi sconvolgimenti economici ed ecologici».

L'agenzia dell’Onu non si dilunga nell’elenco dei colpevoli di questa situazione critica. La correlazione con l’industrializzazione è evidente. Gli altri fattori sono quelli noti: «L’aumento della popolazione, le pratiche di agricoltura intensiva, l’aumento nell’uso dei terreni e della deforestazione, e l’associato uso di energia da fonti fossili hanno tutti contribuito all’aumento nella concentrazione di gas serra nell’atmosfera». Nell’aumento del 2016 ha le sue colpe anche El Niño, il fenomeno di riscaldamento delle acque degli oceani che si verifica in media ogni cinque anni e che ha effetti globali. Però il grosso delle responsabilità nell’aumento delle emissioni è riconducibile all’attività umana. Ed è su queste che si può agire.

Non è un caso che il bollettino dell’Omm lanci il suo allarme a una settimana dall’apertura del vertice annuale dell’Onu sul clima, il Cop23 che si apre a Bonn il prossimo 7 novembre. Un vertice su cui l’attenzione della stampa per il momento è scarsa, e non solo in Italia. Probabilmente anche perché è per l’appuntamento dell’anno prossimo – il Cop24 che sarà ospitato a Katowice, in Polonia – che è stato previsto il primo bilancio degli impegni concreti che ogni nazione ha preso dopo l’accordo di Parigi. Ma non è certo il caso di stare a perdere tempo. «Più aspettiamo ad applicare l’accordo di Parigi, più grandi saranno gli impegni e più drastiche (e costose) le future riduzioni di emissioni necessarie per mantenere il cambiamento climatico all’interno dei limiti critici» avverte l’Omm, concludendo che «senza rapidi tagli nelle emissioni di CO2 e degli altri gas serra siamo diretti verso un pericoloso aumento delle temperature per la fine di questo secolo, molto oltre gli obiettivi fissati dall’accordo di Parigi».

In Francia, nel 2015, centonovantacinque capi di Stato hanno impegnato i loro paesi a collaborare per tagliare le emissioni di gas serra con l’obiettivo di “emissioni nette zero” per il 2050, cioè un completo equilibrio tra le emissioni prodotte e quelle riassorbite dall’atmosfera. In questo modo, secondo i calcoli scientifici su cui si appoggia l’impegno delle Nazioni Unite, il riscaldamento delle temperature può essere contenuto ben al di sotto dei 2 gradi e auspicabilmente sotto gli 1,5 gradi nel confronto con i livelli pre-industriali. Già oggi un nuovo documento che sarà pubblicato dal l’Unep, il programma per l’ambiente dell’Onu, farà il punto sugli impegni politici che le nazioni hanno preso per ridurre le emissioni e analizzerà in che modo queste politiche si tradurranno in effettivi tagli dei gas serra da qui al 2030.

Sarà curioso vedere che cosa scriverà l’Unep a proposito degli Stati Uniti di Donald Trump. Perché, non è certo un mistero, sono loro la grande incognita rispetto all’impegno globale sul clima. Se il grande produttore di gas serra è la Cina, che da sola conta per il 30% delle emissioni globali, gli Stati Uniti, con il loro 15%, sono al secondo posto, davanti al 10% dell’Europa. Difficilmente senza il contributo di Washington si possono centrare gli obiettivi di Parigi. Trump, il primo giugno, ha annunciato che intende tornare a negoziare gli impegni volontari presi dagli Stati Uniti con gli altri membri dell’Onu. Il suo predecessore, Barack Obama, aveva promesso un taglio delle emissioni del 26-28% entro il 2025. Il nuovo presidente non ha dato molti dettagli sulle sue intenzioni ma sembra determinato. A fine settembre dalla Casa Bianca hanno rapidamente smentito le indiscrezioni che parlavano di un possibile ripensamento dopo che un funzionario dell’amministrazione, Everett Eissentat, a un convegno sul clima a Montreal aveva dato modo di sperare in un passo indietro. E a inizio ottobre Scott Pruitt, numero uno dell’Agenzia ambientale Epa, ha promesso davanti ai minatori del Kentucky la «fine della guerra al carbone». Pruitt, attaccato fin dall’inizio della sua nuova carica dagli ambientalisti per essere stato per anni sponsorizzato dall’industria petrolifera, il giorno seguente ha firmato la proposta di legge in cui si chiede la cancellazione delle norme sui limiti alle emissioni introdotte con il cosiddetto Clean Power Plan.

Davanti alla prospettiva di un ritiro degli Stati Uniti dagli accordi, il taglio del 40% delle emissioni entro il 2030 promesso dall’Europa rispetto ai livelli del 1990 o il -35% e -37% promessi rispettivamente da India e Brasile, quarto e quinto grande produttore di gas serra, diventano sforzi che esagereremmo a definire inutili, ma sicuramente saranno insufficienti a raggiungere il traguardo. Viviamo tempi di inedite divisioni. Lo sappiamo bene in Europa, dove non solo nell’Unione europea, ma anche all’interno dei singoli Stati nazione esplodono volontà separatiste che per anni erano rimaste sotto controllo. Tristemente, non si può che constatare che non è questo il clima giusto per un progetto di collaborazione mondiale. Anche su un obiettivo lontano nel tempo come quello di lasciare in eredità alle prossime generazioni un mondo più vivibile di quello che gli stiamo confezionando.

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