Il «mio» Paolo VI autorevole e mansueto
domenica 7 ottobre 2018

Era il 19 maggio 1976 quando sentii che dovevo parlare al Papa. Dovevo dirgli cosa pensavano i giovani della Chiesa, che era troppo ricca, lontana dalla gente. Che assurdità: io, un ragazzo, uno zero, parlare al Papa. Ma no, mi sono detto, io vado. Ascolterà. Parto per Roma senza sapere come avrei fatto. Mi presento al portone di sant’Anna e dico alle guardie svizzere che devo parlare con il Papa. Vedo un sorriso. Mi mandano all’ufficio informazioni. Mi metto in fila, aspetto il mio turno e mi presento: Sono Ernesto Olivero, ho fondato un piccolo gruppo a Torino. Voglio parlare con il Papa. Cosa? L’impiegato non crede a quello che sente. Io insisto: Voglio parlare con il Papa.

Mi mandano da monsignor Monduzzi, prefetto della Casa Pontificia, mi fanno entrare. Mi presento anche a lui: monsignore, sono Ernesto Olivero, ho fondato un piccolo gruppo a Torino. Voglio parlare con il Papa. Forse lei non ha capito, fa lui, ci sono in Sala Nervi migliaia di persone che vogliono parlare con il Papa. Ci vuole un appuntamento. E io: monsignore, voglio parlare con il Papa. Alla fine, mi affida a due guardie. Quando il Papa ha finito, dice, vedete un po’ di mandare lui... Si gira, mi guarda: Ma lei, com’è vestito? A come ero vestito non ci avevo proprio badato.

Me ne accorsi in quel momento. In fretta, mi faccio prestare una maglia un po’ più decente del camiciotto a quadretti. Alla fine, monsignore alza le spalle e sospira: più o meno, posso andare. Le guardie mi portano in Sala Nervi. Quando l’udienza è finita, mi accompagnano dal Papa. Finalmente sono davanti a lui. Finalmente gli dico quello che ho nel cuore: Santità, la Chiesa è troppo ricca. La Chiesa non sa che vita fa la gente. La Chiesa, i giovani non la sentono, non la amano. La Chiesa deve cambiare. Mi sento gli occhi celesti del Papa negli occhi. Sono autorevoli e mansueti. Il Papa è tranquillo: Faccia lei quello di cui c’è bisogno. Spero in Torino, terra di santi, per una rivoluzione d’amore. Mi balena in testa un’immagine: il quartiere di porta Palazzo, dove, ma allora non lo sapevo, in futuro avremmo trovato casa.

Mi attraversa il pensiero di Solutore, Avventore, Ottavio, i martiri romani di Torino, il sangue dei martiri che è seme di cristiani in questo angolo di città: Don Bosco, Cottolengo, la marchesa di Barolo... Il Sermig nascerà lì, in quello stesso angolo della città. Il più disagiato. Passano gli anni. Don Pasquale Macchi, segretario di Paolo VI, presente a quel primo incontro del ’76, mi scrive: Con i più fervidi voti per il vostro generoso servizio ai fratelli, nel ricordo di Paolo VI, che diede la Sua benedizione all’inizio del vostro cammino. Quel giorno del 1976, Paolo VI avrebbe potuto innervosirsi. Invece mi abbracciò. E mi incoraggiò con il suo sguardo azzurro, autorevole e mansueto.

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