Il «grazie Italia» di tanti inglesi
martedì 1 maggio 2018

«Sei italiano? Grazie per quello che ha fatto il tuo Paese. Vieni qui che ti abbraccio». Che un ragazzone di Liverpool abbracci in lacrime un giornalista italiano, può sembrare un paradosso oggi, alla rovente vigilia dell’incontro di Champions Roma-Liverpool, con la calata sulla capitale di 6mila tifosi britannici. C’è preoccupazione per la partita, ritorno della semifinale allo stadio Anfield offuscata dallo scontro prima del match tra alcuni ultrà romanisti e un tifoso del Liverpool (ora in coma).

Ma anche questo non offusca il profondo legame che si è creato fra tante famiglie italiane e britanniche sul caso del piccolo Alfie. E che pare destinato a durare. Innanzitutto perché Alfie è diventato cittadino italiano e, nonostante l’Europa se ne sia lavata le mani e la Gran Bretagna abbia deliberatamente ignorato la cosa, delle precise responsabilità giuridiche, anche ora che il piccolo è morto, esistono.

E poi perché non possono non colpire gli abbracci e i baci ricevuti dalla troupe di Tv2000 e da chi scrive queste righe dalle nonne e dalle mamme che hanno invaso, coi loro bambini e centinaia di palloncini viola e blu, il parco accanto all’Alder Hey Children’s Hospital. Molti genitori inglesi (credenti e no) hanno dimostrato in questo caso di riconoscersi più in un sistema di valori e garanzie come quello italiano, storicamente fondato su una civile idea di accoglienza e di rispetto della vita dalla forte radice cattolica, che in quello del loro Paese.

Il nostro sistema sanitario non è perfetto, ma per l’Oms ha qualità e universalità che lo collocano fra i tre migliori del mondo e sinora, secondo i princìpi scolpiti nella Costituzione, è stato ed è “aperto” verso tutti i suoi cittadini e non solo, come dimostrano le cure garantite a rifugiati e migranti e le tante e silenziose operazioni umanitarie che portano in Italia a curarsi, anche grazie ai ponti aerei della nostra Difesa, tanti bambini gravemente malati provenienti da aree critiche.

Il seme del dubbio, comunque, sull’efficienza di un sistema medicolegale che affida totalmente ai medici il destino dei figli del popolo, è stato definitamente piantato dal piccolo Alfie e dai suoi genitori. Giornali e talk show nel Regno Unito in questi ultimi giorni non hanno potuto non sottolineare la frattura creatasi fra base popolare ed establishment. Una frattura che ha diviso anche i media.

Ne è un esempio il “The Sunday Times” di domenica. A pagina 24 e 25 un articolone titolava a caratteri cubitali viola «Amore, perdita e ignoranza nella battaglia dell’Alder Hey», criticando ferocemente il giovane papà Tom Evans e sottolineando che comunque il bambino è stato mantenuto per 16 mesi a spese dei cittadini che pagano le tasse e che spesso devono aspettare mesi per un appuntamento (scelta editoriale incredibile, nella pagina successiva campeggia il neonato “royal baby” cui si augura una vita ultracentenaria).

«Non posso pensare che un sistema nel quale i pazienti e i loro genitori non pagano, incoraggi l’attitudine che essi debbano stare buoni ed essere grati per quello che hanno», replica poche pagine più avanti nello stesso giornale l’editorialista Dominic Lawson, in un articolo intitolato «I genitori possono amare, ma non proteggere: chiedete alla mamma di Alfie».

Il giornalista racconta la propria esperienza in prima persona di genitore di una figlia con sindrome di Down, e la lotta davanti al tribunale di sua moglie e altre due mamme per quello che riguarda le decisioni dei figli adulti malati. «Secondo la legge, i genitori di questi adulti, che siano in una struttura medica o no, non hanno un ruolo decisivo su come vengono curati i loro figli».

Tornando al caso di Alfie aggiunge: «Anche se queste cure sono inutili – o il tribunale ha deciso che la vita di Alfie Evans non sarebbe andata avanti – offende l’intera nostra idea di famiglia trattare come irrilevanti i sentimenti e i desideri di genitori amorevoli». La conclusione ci tira in ballo: «Non ci si meravigli se i polacchi o gli italiani ci guardano con stupore o disgusto». Disgusto no, stupore e dolore sì. E grande determinazione a tenere aperta e seguire tutt’altra strada.

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