Il grave calcolo di evocare pena capitale e fine pena mai
martedì 30 luglio 2019

Doveva accadere. Era questione di tempo, ma nell’attuale stagione politica non poteva non accadere. Era anche scritto che dovesse succedere per opera del Ministro che fin dall’inizio ha indossato la felpa law and order, legge e ordine, elettoralmente lucrosissima. Matteo Salvini ha colto l’occasione dello sconvolgente omicidio di un servitore dello Stato per evocare la pena di morte applicata negli Usa e non in Italia. E pur con un’esplicita accortezza, «non dico di arrivare a tanto», ha introdotto nel dibattito il tema, dando voce al comprensibile sentimento istintivo di tanti. Non occorre neppure essere tra gli straziati congiunti di quel carabiniere, infatti, per augurarsi di vedere l’assassino fare la stessa fine della vittima. E del resto, che altro verrebbe di invocare per quel padre che ha gettato il figlioletto dal balcone a causa di insanabili contrasti coniugali? Per il conducente del Suv che ha falciato, straziandoli e uccidendoli, due bambini che giocavano sul marciapiede? Per l’autore dell’ultimo vile e a lungo premeditato femminicidio?

Azioni che ci fanno vergognare di appartenere allo stesso genere umano di questi criminali, quando non al genere maschile. Ma nella nostra Costituzione è scritto: «Non è ammessa la pena di morte ». I costituenti, che pur avevano subito orribili torture e che pur avevano avuto congiunti e amici assassinati per aver preteso il ripristino della democrazia, non hanno voluto uno Stato vendicatore che uccide chi ha ucciso, ma uno Stato che risponde con il rigore di un diritto severo, ma civile. Uno Stato non disposto a macchiarsi del crimine di uccidere un innocente, come è avvenuto nel 4,1% delle esecuzioni capitali negli invidiati Usa, secondo una rigorosa indagine della University of Michigan School Law( decine e decine sono, poi , dal 1990 gli innocenti condannati a morte salvati in extremis dalla prova del Dna). Uno Stato che non vorrebbe mai ricordare i barbari allestimenti con cui, sempre negli invidiati Usa, i parenti delle vittime assistono all’esecuzione del condannato per vederlo sfrigolare sulla sedia elettrica o scuotersi dopo una iniezione letale. Il nostro ministro dell’Interno, con non dissimulato disappunto, dice di accontentarsi che il condannato possa uscire soltanto cadavere dalla prigione.

Dovrebbe sapere e dovrebbe correttamente far sapere che la Corte europea dei diritti dell’uomo poco più di un mese fa ha condannato l’Italia (caso Viola) appunto perché il nostro ordinamento prevede che per alcuni reati l’espiazione carceraria duri per l’intera vita, rimanendo indifferente al percorso del condannato durante l’esecuzione della pena. Adeguarsi al dictum della Corte di Strasburgo non vorrebbe dire – è bene precisarlo a fronte di tante affermazioni di tal segno, non si sa se dovute ad ignoranza o a calcolo – abolire le pene perpetue nel nostro sistema: continuerebbero a esserci e a essere eseguite fino all’ultimo giorno, a meno che – dopo circa venticinque anni di carcere, suggerisce la giurisprudenza della Corte – un’osservazione attenta e prolungata non attesti che il condannato abbia dato prova di autentica riabilitazione.

Si potrebbe anche pensare che il ministro dell’Interno, essendo garante della sicurezza pubblica, intenda ricorrere alla forza intimidatrice della pena comminata per dissuadere dai più gravi comportamenti delittuosi. Ma il ministro sa o dovrebbe sapere che la minaccia della sanzione è inefficace, talvolta controproducente. Negli invidiati Usa si registrano 5,3 omicidi ogni 100mila abitanti, in Italia 0,8. Non solo: negli Stati dell’Unione che non ammettono la pena di morte si conta un minor numero di omicidi rispetto a quelli che la prevedono. Ciononostante, il presidente Trump, che sta affilando le sue armi elettorali, ha pensato di ripristinare l’esecuzione delle condanne a morte inflitte dai Tribunali federali, interrompendo una moratoria che durava dal 2003: iniziativa che già gli avrebbe procurato maggiori consensi. Non si riporta il dato perché particolarmente interessati al Trump-pensiero (si perdoni l’ossimoro), ma per far capire a che serve e a chi giova evocare e invocare la pena capitale.

Giurista, Università di Roma La Sapienza

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