Esordio del nuovo premier britannico
mercoledì 24 luglio 2019

Le chiavi del Regno finalmente le ha avute. Ora vedremo cosa saprà farne. A 55 anni compiuti Alexander Boris Kemal – questo il cognome turco originario di Boris Johnson – prenderà dimora oggi stesso al numero 10 di Downing Street dopo aver illustrato alla regina Elisabetta i capisaldi del suo programma di governo. Che sono tre: «Deliver Brexit, unite the country and defeat Corbyn», unire il Paese, portare a termine «vivo o morto» (do or die) la Brexit, sconfiggere i laburisti (e gli scismatici di Nigel Farage) guidando la compagine tory che a larga maggioranza lo ha incoronato leader con il piglio ribaldo del condottiero. Quel piglio che fin dalla prima giovinezza da king’s scholar (gli studenti di Eton che beneficiano di una borsa di studio, a differenza dei ricchi allievi della scuola le cui famiglie pagano rette profumatissime) non ha mai celato, né come giornalista né come sindaco di Londra e tanto meno come ministro e poi avversario feroce di Theresa May, che contestualmente gli consegna la premiership del partito e la carica di primo ministro, lasciandogli in eredità un gruppo la cui maggioranza alla Camera dei Comuni è risicatissima, appesa a un filo, mentre plebiscitaria è stata la sua vittoria sul rivale Jeremy Hunt nella conta fra gli iscritti al partito: 92mila voti contro 46mila.

Davanti a Johnson c’è il corto sentiero che porta al 31 ottobre, data in cui scade la possibilità di stipulare accordi con l’Unione Europea. Dopodiché non si potrà più parlare di soft-Brexit (il divorzio morbido) ma di no-deal (il taglio netto senza alcun accordo fra Londra e la Ue), obiettivo più volte dichiarato in polemica con May da parte del più ringhioso fra gli alfieri del <+CORSIVO50SX>leave<+TONDO50SX>. Il che butterebbe a mare le 600 pagine di quel Withdrawal Agreement faticosamente compilato e rimaneggiato dalla May e varie volte respinto dal Parlamento britannico, che agli occhi di Boris Johnson è da sempre apparso come una vergognosa forma di vassallaggio. Il neo-premier sa bene quanto potrebbe costare al Regno Unito la caparbia uscita senza accordi: almeno tre punti di Pil, l’obbligo di adozione delle regole del Wto, nuove barriere doganali e tariffarie, l’incertezza sui confini fra le due Irlande e un groviglio tuttora inestricabile di provvedimenti in materia di immigrazione, protezione delle frontiere, naturalizzazione dei residenti e regolamentazione dei permessi di lavoro.

Il problema principale per Johnson è rappresentato tuttavia dal Parlamento. I Comuni su una cosa si sono detti d’accordo: non vogliono un’uscita traumatica come il no-deal. O per lo meno non la volevano fino al marzo scorso. Già alcuni ministri lasciano intendere che abbandoneranno il proprio ufficio, così come una piccola pattuglia di deputati si dice pronta a emigrare nello schieramento liberale, lasciando così i tories in minoranza. Che farà Johnson? La tentazione di indire nuove elezioni per assicurarsi una più rassicurante maggioranza è forte quanto rischiosa. Anche la May cadde nel medesimo tranello, ma venne punita dagli elettori e fu costretta a un governo di coalizione.

Sono in parecchi oggi a guardare con preoccupazione alla vittoria del biondo e spericolato ex direttore dello "Spectator": la comunità degli affari londinese così come la futura Commissione europea non vogliono un’uscita traumatica del Regno Unito dall’Europa ("Sarebbe una tragedia"), ma c’è chi scruta con maggior apprensione il suo più che esplicito affetto per le idee sovraniste, soprattutto quelle del sopravvalutato Steve Bannon, un tempo nume e ideologo di Donald Trump. Il quale, non a caso, ha sonoramente applaudito su twitter la vittoria di Johnson: «He will be great!» (sarà fantastico!).

Ma presto Johnson dovrà rendersi conto che fra i dossier che il suo nuovo gabinetto si troverà sul tavolo c’è anche quello iraniano: una partita difficile e pericolosa, dove la sfrontatezza e l’eccentricità – doti che finora gli hanno garantito un’ascesa costante e quasi irresistibile – non bastano. «So che c’è chi contesterà la saggezza della vostra decisione», ha detto ai suoi elettori immediatamente dopo la vittoria. Per una volta, una lampo di realismo e di umiltà. Ne avrà bisogno, nel breve futuro. O le chiavi del Regno si faranno anche per lui maledettamente pesanti.

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