martedì 12 gennaio 2021
Cresce la consapevolezza dell’opinione pubblica e diminuiscono gli spazi dell’oppressione grazie al ruolo delle istituzioni. Un nuovo modello di Stato?
Il duro pugno degli autocrati e l'afrodemocrazia possibile

Ansa

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Per comprendere lo stato di salute della democrazia in Africa è importante innanzitutto intercettare l’effettiva percezione che gli africani hanno di sé stessi, di quello che essi intendono essere e di quanto sta realmente avvenendo nel contesto geopolitico del loro continente. A questo proposito è utile consultare i dati raccolti da Afrobarometer, un istituto di ricerca panafricano apartitico, con sede in Ghana, che da anni conduce indagini, ripetute regolarmente, sull’atteggiamento del pubblico afro su democrazia, governance, economia e società in oltre 30 Paesi del continente (Algeria, Benin, Botswana, Burkina Faso, Burundi, Camerun, Cabo Verde, Costa d’Avorio, Egitto, Etiopia, Gabon, Ghana, Guinea, Kenya, Lesotho, Liberia, Madagascar, Malawi, Mali, Mauritius, Marocco, Mozambico, Namibia, Niger, Nigeria, São Tomé e Principe, Senegal, Sierra Leone, Sud Africa, Sud Sudan, Sudan, Swaziland, Tanzania, Togo, Tunisia, Uganda, Zambia e Zimbabwe). Si tratta della principale fonte mondiale di dati di alta qualità su ciò che pensano gli africani.

Questa metodologia di analisi è fondamentale per ottenere una cognizione dei reali interessi e degli obiettivi politici degli Stati africani, anziché essere solo meramente giustificativa, cioè strumento di propaganda da parte dei governi rispetto a decisioni assunte per tutt’altri motivi e in ambiti diversi, come spesso accade, peraltro manipolando il sentire dell’opinione pubblica al fine di acquisirne il consenso. Ebbene, per quanto il pensiero dei cittadini, nella fattispecie quelli africani, non sia, in senso stretto, un giudizio fondato su conoscenze approfondite, è evidente, studiando i dati forniti dall’Afrobarometer, che sta sempre più crescendo il senso di cittadinanza e l’ideale democratico.

Basti pensare che da una ricerca dello scorso anno risulta che il 78% degli intervistati rigetta l’idea di una dittatura presidenziale, il 74% quella del regime fondato sul partito unico e il 72% della dittatura militare. Al di là delle valutazioni di merito sulle responsabilità delle classi dirigenti, rimane aperto il giudizio sulla effettiva traiettoria intrapresa dai Paesi africani in termini di sviluppo democratico. Secondo i dati raccolti da due tra i massimi esperti in materia di politica comparata in Africa, Jonathan Powell (Università della Florida Centrale) e Clayton Thyne (Università del Kentucky), rispetto al passato vi è stata una significativa diminuzione dei golpe nel continente africano: dal 1950 vi sono stati oltre 200 colpi di stato. Di questi circa un centinaio sono stati quelli riusciti. E se tra il 1960 e il 1999 ogni de- cennio contava tra i 39 e i 42 tentativi di golpe, dal 2000 il loro numero è andato diminuendo a 22, mentre nel decennio che si sta concludendo sono stati “appena” 17. Da rilevare che una delle ragioni per cui vi è stata in questi anni una diminuzione dei golpe è dovuta alla maggiore efficacia delle istituzioni africane sia a livello continentale come l’Unione Africana (Ua), che regionale come la Comunità di sviluppo dell’Africa meridionale (Sadc) e la Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (Ecowas). Questi organismi hanno infatti adottato strumenti politici e legislativi che consentono loro di reagire in modo fulmineo agli eventi destabilizzanti.

Rimane il fatto che ancora oggi vi sono presidenti come l’ugandese Yoweri Museveni, al potere dal gennaio del 1986, che continuano a fare il bello e il cattivo tempo. In vista delle imminenti elezioni presidenziali in cui Museveni si dice certo dell’ennesima riconferma, il principale candidato dell’opposizione, Bobi Wine, è stato costretto ad andare in giro per il proprio Paese, durante la campagna elettorale, indossando un giubbotto antiproiettile. Cantante e musicista ben affermato, è sopravvissuto ad arresti, pestaggi e ad almeno due attentati. Il signor Wine ha buone ragioni per avere paura in vista della consultazione elettorale di gennaio. Wine, il cui vero nome è Robert Kyagulanyi Ssentamu, aveva quattro anni quando il presidente Museveni salì al potere dopo una sanguinosa guerra civile che lo vide vincitore dell’allora principale movimento ribelle, il National Resistance Army (Nra). Trentaquattro anni dopo, Wine e Museveni sono in lizza per la massima carica dello Stato, manifestando però due diverse concezioni della politica – «la periferia» il primo e «il palazzo» il secondo – in un continente in cui la vera democrazia per molti sembra essere una sorta di utopia ma dove la sete di partecipazione democratica rimane comunque una giusta ambizione.

Il trentottenne Wine – che si definisce il «candidato presidente del ghetto» dopo la sua dura infanzia e adolescenza in uno slum di Kampala – esprime il sentire di molti i giovani insoddisfatti e disoccupati, campione significativo di in un continente in cui l’età media è di 20 anni. Museveni, 76 anni, è il suo esatto contrario: emblema di una politica dittatoriale, mascherata all’occorrenza, ben radicata e pervasiva, capace di silenziare con ogni artifizio qualsivoglia forma di dissidenza. Da rilevare che anche in Burundi, Guinea, Costa d’Avorio, Ruanda e in molti altri Paesi, i presidenti al potere hanno fatto carte false, utilizzando ogni sotterfugio, per estendere i limiti dei loro mandati. Chidi Odinkalu, senior manager per l’Africa presso Open Society Foundations, ha rilevato come oggi vi siano ancora 21 ex militari al potere in Africa tra cui figurano Angola, Ciad, Egitto, Etiopia, Nigeria, Uganda, Ruanda, Sudan, Sud Sudan e Zimbabwe.

Rimane il fatto, come osserva in modo del tutto pertinente il congolese Mughanda Muhindo, esperto di relazioni internazionali, che «sono ancora pochi gli analisti che pongono la domanda di un nuovo modello di Stato, ispirato alle tradizioni africane. Eppure questa è la conditio sine qua non per fare uscire lo Stato africano dalla sua crisi ontologica». Egli ritiene che senza questo rinnovamento, non vi sarà in Africa né soddisfacente stato di diritto, né sviluppo durevole. Mughanda Muhindo auspica in particolare il ricorso allo «Stato multinazionale», che preesisteva alla colonizzazione e che continua a sopravvivere ancora oggi, anche se in maniera informale. «In esso, all’opposto dello “Stato-nazione” che ha il monopolio della produzione del diritto, c’erano spazi autonomi di produzione del diritto: lo spazio statale (luogo di produzione del diritto generale) e lo spazio nazionale o etnico (luogo di produzione del diritto particolare) ». Questo rinnovamento, secondo il ricercatore congolese, è necessario per affermare l’ordine sociale e politico che s’intende promuovere, rispondendo ai bisogni di sicurezza e di benessere delle proprie popolazioni.

Non v’è dubbio, comunque, che soprattutto nelle aree d’instabilità politica – la fascia saheliana costituisce un tipico esempio – s’imponga l’esigenza di una radicale riforma della governance delle risorse (energetiche, prima di tutto) – in senso più equo e inclusivo. Infatti, gli interessi predatori stranieri, spesso contrapposti nello sfruttamento delle materie prime africane, acuiscono la destabilizzazione, unitamente all’insorgenza del terrorismo jihadista. Una delle maggiori sfide – soprattutto in considerazione dei danni economici e sociali causati dalla pandemia del coronavirus – riguarda il coinvolgimento della società civile a livello continentale. Sono molti coloro che vorrebbero attribuirle un ruolo più incisivo nei processi di decisione politica ed economica, dando voce alle fasce di popolazione più svantaggiate, lottando contro la perniciosa esclusione sociale. L’auspicio per il nuovo anno è che i leoni africani continuino a correre come gazzelle lungo i sentieri della libertà e della partecipazione.

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