martedì 19 giugno 2018
Caro direttore, i sottoscritti docenti universitari e accademici, accomunati dall’interesse per il Diritto del mare al quale dedicano da molti anni i propri interessi di ricerca e didattici ...
Salvare vite in mare un dovere. Poi si discute
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Caro direttore,
i sottoscritti docenti universitari e accademici, accomunati dall’interesse per il Diritto del mare al quale dedicano da molti anni i propri interessi di ricerca e didattici in diverse Università ed Enti pubblici di ricerca italiani e stranieri, membri del Gruppo d’interesse sul Diritto del mare della Società Italiana di Diritto Internazionale e dell’Unione Europea, ritengono doveroso prendere la parola su alcune delle questioni che sono in queste ore al centro del dibattito pubblico per precisare i contenuti di alcuni princìpi giuridici vincolanti per il nostro Paese, in quanto parte della comunità internazionale e membro dell’Unione Europea. In primo luogo, il dovere di tutelare la vita umana in mare è imposto, dal diritto internazionale, a tutti gli Stati (costieri – attraverso un complesso sistema di ripartizione di obblighi di «search and rescue» , ricerca e salvataggio – e di bandiera – per il tramite degli equipaggi a bordo delle navi).

Così si esprime la Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del mare del 1982, facendo peraltro propria un’antica consuetudine internazionale. Tale dovere, per sua natura, non può rivestire carattere esclusivo, e il mancato adempimento da parte di uno Stato non costituisce adeguato fondamento per il rifiuto di ottemperare opposto da un altro Stato. Nell’ultimo, positivo sviluppo della vicenda della nave “Aquarius” la Spagna ha dato una plastica dimostrazione di questa circostanza. In secondo luogo, pur non possedendo sufficienti informazioni (e, anche per questo, senza voler prendere posizione sulla controversia in corso tra Italia e Malta), quanto appena osservato ci porta a ritenere insufficiente, perché uno Stato possa dirsi “liberato” del dovere di dare accoglienza nei propri porti a una nave in difficoltà, il fatto che un altro Stato abbia coordinato il soccorso della nave attraverso il proprio Rescue Coordination Center (Rcc).

Ciò, se non altro, per il banale motivo che tale interpretazione disincentiverebbe ogni attività di coordinamento di soccorso, con effetti contrari allo spirito stesso di cooperazione sotteso all’esistenza di una rete internazionale di centri di soccorso. In terzo luogo, la chiusura dei porti. Tale misura non è di per sé esclusa dal diritto del mare, ricadendo i porti nell’ambito dell’esclusiva sovranità dello Stato. La possibilità di attuarla dipende tuttavia dall’esistenza (o meno) di accordi bilaterali tra lo Stato del porto e quello di bandiera (e dal contenuto di tali accordi) nonché dalle specificità di ciascun singolo caso. Il rifiuto di accogliere in porto una nave potrebbe quindi configurare una violazione del dovere di salvaguardare la vita umana in mare qualora la nave in oggetto si trovi in difficoltà, se non addirittura una forma di respingimento di massa, anch’esso vietato dal Diritto internazionale (nella specie, dalla Convenzione europea sulla salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali). In quarto luogo (e in estrema sintesi), il ruolo dell’Unione Europea.

Che il regolamento europeo (cosiddetto “Dublino III”) che individua lo Stato membro competente per l’esame di una domanda di protezione internazionale (Reg. Ue n. 604/2013) debba essere rivisto è fuor di dubbio, essendo stato concepito senza tener conto delle dimensioni dei flussi migratori che abbiamo conosciuto negli ultimi anni. Si tratta, però, di un tema diverso da quello delle migrazioni per mare benché collegato a esse: non è infatti a causa di Dublino, bensì della sua posizione e conformazione geografica che l’Italia si trova a essere il punto di approdo naturale dei migranti provenienti dal continente africano. È dunque giusto che il nostro Paese spinga per una revisione del sistema di Dublino (che fa gravare sull’Italia l’esame di un numero troppo elevato di domande di protezione) e insista nel chiedere ai partner europei una più equa ripartizione degli sforzi (logistici ed economici) necessari per fronteggiare le emergenze umanitarie che le migrazioni per mare portano con sé.

Irini Papanicolopulu professore associato di Diritto internazionale Università di Milano-Bicocca

Rosario Sapienza professore ordinario di Diritto internazionale, Università di Catania

Gian Maria Farnelli assegnista di ricerca Università di Bologna

Lorenzo Schiano di Pepe professore ordinario di Diritto dell’Unione Europea, Università di Genova

Fiammetta Borgia ricercatrice di Diritto internazionale, Università di Roma “Tor Vergata”

Claudia Cinelli docente a contratto Accademia Navale di Livorno e Università di Pisa Ilaria Tani avvocato e docente a contratto in Diritto internazionale del mare, Università di Milano-Bicocca

Andrea Caligiuri professore associato di Diritto internazionale Università di Macerata

Francesca Mussi assegnista di ricerca in Diritto internazionale Università di Trento

Gemma Andreone ricercatrice di Diritto internazionale Istituto di Studi Giuridici Internazionali – Cnr

Roberto Virzo professore associato di Diritto internazionale Università del Sannio

Emiliano Giovine avvocato e supervisor presso la Human Rights and Migration Law Clinic Università di Torino Tullio Scovazzi professore ordinario di Diritto internazionale Università di Milano-Bicocca

Giuseppe Cataldi professore ordinario di Diritto internazionale Università di Napoli “L’Orientale” e Presidente dell’Association Internationale du Droit de la Mer

Tullio Treves professore emerito Università di Milano

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