Ultraliberismo e protezionismo
venerdì 31 marzo 2017

Tanto tuonò che piovve. Dopo una serie serrata di proclami dell’imminente introduzione di dazi commerciali «a protezione del lavoro americano», il “Wall Street Journal” ha anticipato la notizia che l’amministrazione Trump sarebbe in procinto di adottare dazi punitivi (del 100%) su una serie di prodotti europei, tra i quali le mitiche Vespa prodotte dalla Piaggio, l’acqua minerale Perrier e il formaggio Roquefort. Si tratta di simboli del “made in Europe”, uno dei quali – il marchio francese di acqua minerale – detenuto dalla compagnia svizzera Nestlè (che tra l’altro possiede anche la San Pellegrino). Il valore propagandistico dell’iniziativa della Casa Bianca è indiscutibilmente forte presso l’elettorato che lo ha votato. Ma non solo.

Le misure preannunciate sarebbero state infatti adottate come ritorsione nei confronti della mancata applicazione da parte dell’Unione di un accordo sottoscritto con gli Stati Uniti nel 2009, volto alla chiusura di una querelle commerciale tra Usa e Ue relativa al bando all’importazione di carne di manzo americana. In una delibera che aveva preceduto quell’accordo cui gli europei non hanno mai dato attuazione, la Wto (l’Organizzazione mondiale del commercio) aveva condannato l’Europa già nel 2008, sostenendo che il divieto di importazione della carne americana, giustificato col fatto che essa potesse essere stata trattata con gli ormoni, era troppo vasto e vago e si configurava come un atto di protezionismo commerciale.

Al di là del clamore che in queste ore le indiscrezioni del “Wall Street Journal” hanno suscitato nel mondo, quella americana sarebbe quindi niente di più che una ritorsione a un precedente atto scorretto della Ue, per lungo tempo (quasi un decennio) tollerato dagli Usa. L’episodio, in sé e per sé, ci parla quindi piuttosto della forza della lobby agricola dell’Unione, cosa peraltro ben nota agli allevatori e ai produttori di latte italiano, e della centralità della politica agricola comune (la famigerata Pac) nell’agenda della Ue: così rilevante da portare un gigante del commercio internazionale come l’Unione Europea a sfidare per anni il rischio di ritorsioni commerciali, pur di soddisfare interessi pesanti e ben individuabili. Evitiamo quindi i toni da guerra di religione e prendiamo invece atto di un paio di cose relative al comportamento di questa amministrazione.

La prima è che sul concetto di “reciprocità” (ti faccio quello che mi fai), Donald Trump non scherza affatto. Potremmo presto vederne gli effetti in altri settori nei quali gli europei, da decenni, assumono solennemente impegni che poi si guardano bene dal mantenere: il primo, più ovvio e importante, è quello nel settore della difesa comune in ambito Nato e del vincolo del 2% del Pil da destinare alla spesa militare. Sicuramente molti dei nostri lettori non si stracceranno le vesti per questa sistematica violazione della parola data, ma resta il fatto che ciò costituisce una violazione grave di un rapporto fiduciario.

La seconda è che la nuova amministrazione Usa non ritiene affatto che l’apertura commerciale incondizionata sia un bene assoluto, ma debba essere valutata caso per caso. Di per sé anche questo punto non è non condivisibile, dopo decenni di sbornia liberista. Ciò che però lascia perplessi è il continuo additare gli “stranieri” come la causa principale se non esclusiva dei guai americani. Ovvero quel background ideologico protezionista, molto radicato nella destra conservatrice americana così ben descritto nell’articolo di Raul Caruso pubblicato qualche giorno fa. Mentre il problema comune ad americani, europei, cinesi e messicani è la mancata regolazione politica degli effetti più subdoli e iniqui della globalizzazione finanziaria e del rampante, crescente divario nei reciproci rapporti di forza tra capitale e lavoro.

Su questi temi Trump appare purtroppo tutt’altro che disallineato rispetto a chi dai ruggenti anni 90 non ha fatto che vedere aumentare la propria quota di ricchezza e reddito. Così, il pericolo di queste “legittime” sanzioni è quello di far passare la “normalità” della reintroduzione dei dazi commerciali, con tutti gli effetti ritorsivi a cascata che si possono immaginare. Il vero rischio, quindi, è che ai mali dell’ultraliberismo finanziario si sommino in futuro quelli del protezionismo commerciale, con conseguenze devastanti proprio sui livelli occupazionali e di vita dei ceti deboli e subalterni: che negli Stati Uniti (come in Europa peraltro) non bevono certo Perrier, non mangiano Roquefort e forse non vanno neanche in Vespa, ma continueranno comunque a pagare il conto più salato di questa globalizzazione senza governo.

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