sabato 24 ottobre 2020
Doppio referendum, domenica, in un contesto socio-economico difficile. La Carta redatta nel 1980 dalla dittatura ha bisogno di un ulteriore aggiornamento, anche la destra pronta a votare Sì
Il Cile vuole darsi la libertà di cambiare la Costituzione

Reuters

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Non più il celebre “Chile, la alegría ya viene” (Cile, la felicità sta arrivando), coniato dal pubblicitario Eugenio García e fonte di ispirazione per la penna di Antonio Skarmeta e la telecamera di Pablo Larraín. Trentadue anni dopo e in piena pandemia, l’inno-leitmotiv della campagna è stato sostituito da video slogan diffusi su YouTube. E rilanciati “telefono dopo telefono” via WhatsApp. Non è solo la forma ad essere cambiata. Anche contesto interno e il panorama internazionale sono profondamente differenti. Quel 5 ottobre 1988, il Paese australe era stato chiamato alle urne per decidere se prolungare la dittatura di Augusto Pinochet, al potere da 15 anni. Il trionfo del “NO” al regime avviò la transizione pacifica verso la democrazia, facendo del “modello cileno” un esempio per il globo.

Domenica 25 ottobre, invece, i cittadini dovranno dire se sono favorevoli a mandare definitivamente in soffitta la Costituzione redatta da un fedelissimo del generale – benché sottoposta negli ultimi tre decenni a quaranta riforme significative – e a sostituirla con una nuova. Una scelta di certo meno drammatica. La turbolenza socio-politica attuale – la peggiore del post-Pinochet – non è, comunque, paragonabile al governo militare. Un parallelo tra i due momenti storici, tuttavia, esiste. Di nuovo il Cile riesce a profilare, non senza difficoltà, una via d’uscita istituzionale dalla crisi in corso, mediante un referendum. El plebiscito, lo chiamano gli abitanti. Un esito nient’affatto scontato un anno fa quando, in seguito all’aumento del prezzo del biglietto della metropolitana di 30 pesos – equivalenti a 4 centesimi di euro – da parte del governo di Sebastián Piñera, la protesta sociale è esplosa con forza tellurica. E violenta. Accanto ai moltitudinari cortei pacifici, ci sono stati saccheggi, incendi, distruzioni.

La repressione da parte delle forze dell’ordine ha acuito le tensioni: per settimane una tra le nazione più stabili dell’America Latina è precipitata nel caos. El estallido (l’esplosione) è costato trentuno morti, migliaia di feriti, danni milionari. Una reazione apparentemente sproporzionata rispetto alla misura contestata. I trenta pesos sono, però, diventati la metafora del grande nodo irrisolto durante e dopo la dittatura pinochettista: la diseguaglianza. A fronte di una crescita pre-Covid ininterrotta, tuttora l’1 per cento della popolazione detiene il 26,5 per cento della ricchezza mentre il 50 per cento deve sopravvivere con meno del 2,6 per cento di risorse. In pratica, come afferma l’economista Jorge Katz, non esiste “il Cile” ma quattro Cile differenti, in ordine decrescente di sviluppo dove, a punte di eccellenza da far invidia al Nord del pianeta, corrispondono abissi di emarginazione. A soffrire maggiormente l’ingiustizia strutturale, ancor più dei poveri, sono le classi medie e medio-basse, costrette a indebitarsi per pagare istruzione e sanità, servizi privatizzati dalla dittatura e lasciati tali dai governi democratici.

«Più che una scelta politica precisa, questo si deve alla difficoltà di realizzare riforme, a causa dell’alta maggioranza richiesta – due terzi – dalla Costituzione del 1980. In pratica, la Carta dà a una minoranza conservatrice – idealmente vicina alla stagione della dittatura – il potere di evitare i cambiamenti voluti dalla maggioranza delle forze democratiche. Queste ultime partono in svantaggio e hanno dovuto fare sforzi enormi per eliminare le parti più problematiche del testo, come i senatori designati e l’inamovibilità del capo delle forze armate. Cambiare le regole è l’unico modo per competere in modo paritario», spiega Patricio Zapata, docente della Pontificia Università cattolica (Puc) e tra i più noti costituzionalisti cileni. È la Magna Carta a sancire la preminenza dei privati rispetto allo Stato nell’erogazione dei servizi di base. Ecco perché la “battaglia dei 30 pesos” in breve s’è trasformata nella lotta per una nuova Costituzione. Un’istanza emersa più volte nell’ultimo quindicennio, ma sempre stroncata dall’opposizione del centro-destra. Il presidente Piñera, in principio, l’aveva escluso. Poi, sull’onda della rivolta, il 15 novembre 2019 ha ceduto e ha annunciato la convocazione del referendum, dopo un accordo con tutte le principali forze politiche.

Rinviata da aprile a ottobre a causa della pandemia, la votazione prevede due quesiti. I cittadini sono chiamati a scegliere tra “accetto” o “rifiuto” la redazione di una nuova Costituzione. E – in una seconda scheda – devono decidere se il testo sarà scritto da una commissione mista di parlamentari e nuovi eletti o da un’Assemblea costituente ad hoc. I sondaggi danno il fronte del sì – di cui fa parte il centro e la sinistra, mentre la destra è divisa – in netto vantaggio, con una forbice che varia tra il 55 e il 75 per cento. A fare la differenza, con tutta probabilità, sarà l’affluenza. In Cile il voto è volontario e, per i referendum, non esiste un quorum di partecipanti. Normalmente alle urne si presenta la metà degli aventi diritto. Stavolta l’effetto opposto di Covid e alta mobilitazione dei giovani potrebbe rimescolare le carte. In ogni caso, l’eventuale successo del sì sarebbe solo il primo passo di un lungo processo. L’organismo incaricato della stesura del documento – con tutta probabilità una Costituente senza parlamentari a giudicare dai sondaggi – non sarebbe formato prima di aprile e la ratifica della Carta non avverrebbe prima del 2022.

«Un percorso così articolato richiederà una grande capacità di collaborazione politica – prosegue Zapata –. Non sarà facile. Un primo passo in tale direzione è stata la scelta coraggiosa di vari esponenti di destra di schierarsi per il sì. Se riusciremo a farcela, questo cammino si trasformerà in una grande lezione di educazione civica, cruciale dopo decenni di “ripiegamento” dei cittadini nel privato ». «Per il Paese si tratta di uno spartiacque. È un momento di risveglio della società civile, che affonda le sue radici nelle proteste esplose ciclicamente negli anni Duemila», afferma Anita Perricone, politologa dell’Università Diego Portales che, insieme a Enrico Padoan, ha pubblicato per Castelvecchi Cile in rivolta. Certo perché l’esperimento riesca, il fronte del sì dovrà essere in grado di controllare le componenti più radicali, la cui violenza rischia di legittimare le paura dell’ultradestra.

Nelle ultime settimane, si sono registrati nuovi e gravi episodi di tensione, come dimostra l’incendio di due chiese storiche nella capitale. «Il referendum, in ogni caso, rappresenta una valvola di sfogo delle tensioni», aggiunge Perricone. «Il plebiscito – conclude Zapata – offre una strada alternativa al “bruciare tutto”. Non è un cammino perfetto né una formula magica e il risultato è incerto. Almeno, però, dimostra che possiamo trovare strade istituzionali e costruttive per realizzare cambiamenti, isolando le minoranze violente».

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