martedì 8 ottobre 2019
Il riscaldamento globale influisce sulla presenza degli insetti: da commerci e temperature più alte ogni anno in Europa 20 nuove specie. Un’emergenza per le colture
La zanzara tigre (Ansa)

La zanzara tigre (Ansa)

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Quando andava di moda l’apocalisse nucleare, si diceva che sarebbero sopravvissuti solo gli scarafaggi. Perché sopportano le radiazioni sedici volte più dell’uomo e non per nulla zampettano sulla Terra da 350 milioni di anni. Poi, le previsioni si sono capovolte. Oggi si ritiene che la fine del mondo possa essere causata dalla scomparsa degli insetti. Blatte comprese. Un terzo sarebbe già sulla via dell’estinzione. Contrariamente a quel che si pensa, però, il cambiamento climatico non è la causa diretta del declino. L’inquinamento dell’acqua e lo sfruttamento del suolo fanno molto più male alle specie animali e vegetali.

Il clima condiziona l’adattamento, ma, da solo, non è sufficiente a determinare lo spostamento degli invertebrati da un habitat all’altro. Ciò non significa che l’impatto del riscaldamento globale non abbia ripercussioni pesantissime sulla vita degli insetti e quindi sulla nostra: dalla presenza degli impollinatori dipende la riproduzione delle piante e un’invasione di fitofagi può causare carestie alimentari o anche soltanto il rincaro delle derrate. In entrambi i casi l’incremento delle temperature medie ha un’influenza. Tuttavia, come è emerso dalla Summer School sulle patologie vegetali promossa dal Centro Agroinnova dell’Università di Torino, l’equilibrio degli ecosistemi, lungamente preservato da barriere naturali come i mari e le montagne, negli ultimi cinquant’anni è stato compromesso più dalla globalizzazione che dal clima. Quantomeno, vi è stato un concorso di cause.

Il direttore di Agroinnova, Maria Lodovica Gullino, inquadra così la situazione: «Gli effetti dei cambiamenti climatici e del commercio globale influenzano fortemente lo spostamento di patogeni vegetali. Soltanto negli ultimi dieci anni si è assistito all’introduzione nel nostro Paese di una trentina di patogeni fungini e batterici, spesso segnalati per la prima volta in Italia e in Europa e trasmessi attraverso semi o materiale di propagazione infetti, capaci di causare danni ingenti alle nostre colture orto-floricole. Si tratta di specie diverse di Fusarium oxysporum oppure di patogeni un tempo molto rari, che oggi invece stanno trovando nel nostro Paese le condizioni ideali per svilupparsi. Allo studio di questi patogeni invasivi e alla messa a punto di metodi di prevenzione, diagnosi e contenimento sono stati dedicati grossi progetti finanziati dalla Commissione Europea, nell’ambito del Programma Horizon 2020; alcuni di essi sono coordinati dal nostro centro».

Considerando solo gli invertebrati, è stato calcolato che dopo la rivoluzione industriale, cioè da quando è stato dato un impulso significativo ai commerci, si sono insediate in Europa 1.306 specie provenienti da altri continenti, oltre a 221 di origine incerta, con un’accelerazione significativa negli ultimi trent’anni. Il 94% sono artropodi e la maggioranza insetti. Poiché moltissimi organismi alloctoni sono fitofagi, cioè si nutrono di radici, foglie e frutti, l’organizzazione euro mediterranea per la protezione delle piante (EPPO) tiene aggiornate dal 1970 le liste di quarantena, dalle quali si evince che il 29% degli insetti alieni sono coleotteri, seguiti dai rincoti (26%): al primo ordine appartiene la Popillia japonica; al secondo la Halyomorpha halys, più nota come cimice asiatica.

La provenienza del 79% degli insetti arrivati negli ultimi due secoli in Europa è incerta persino per gli entomologi. Si sa che ogni anno entrano 20 nuove specie, prevalentemente dall’America e dall’Asia. Con effetti devastanti sulle nostre colture: il governo finanzia da anni programmi di contrasto contro il tarlo asiatico che danneggia le piante ornamentali, contro il punteruolo rosso che colpisce la palma, contro il cinipide del castagno, contro la Popillia... Non sempre funzionano: i meccanismi di ibridazione facilitano l’adattamento, esattamente come può fare il global warming, che, tra l’altro, complica la situazione innescando le migrazioni locali. Anche le specie autoctone, infatti, al mutare della temperatura e dell’umidità tendono a cercare degli habitat più ospitali dove nutrirsi e riprodursi; anche il loro insediamento non dipende solo dal clima, ma dal reperimento di piante ospiti e del nutrimento sufficiente a sopravvivere e riprodursi. La mosca olearia ( Bactrocera oleae), ad esempio, è presente in Italia da millenni, ma non ama il caldo torrido: da qualche tempo, quindi, ha iniziato a spostarsi dagli oliveti del Sud a quelli dei laghi alpini, rendendo necessari piani straordinari di difesa, attraverso insetticidi e trappole. È lotta aperta anche alla processionaria del Pino ( Thaumetopoea pityocampa) che ora attacca anche i cedri e si sposta in altitudine, oltre che da regione a regione.

Che si tratti di specie aliene, che arrivano con le navi e gli aerei, o di autoctone in fuga dal proprio habitat, questi eventi ridisegnano l’ecosistema e si riflettono immediatamente sulla nostra vita quotidiana. Prendiamo la zanzara tigre: innanzi tutto, ha creato pesanti problemi epidemiologici, essendo il vettore di diverse malattie; inoltre, ha modificato i nostri comportamenti, perché l’insetto punge l’uomo anche nelle ore del giorno e non solo, come avveniva per le specie autoctone, durante il crepuscolo; infine, da quando il clima è diventato più caldo e più umido, esemplari di questo genere sono stati segnalati persino sulle montagne, dove le 'nostre' zanzare non osavano avventurarsi.

La faccenda è dunque molto più seria del dibattito fiorito nei mesi scorsi sulla necessità di inserire tarantole e grilli nella nostra dieta - peraltro in Sardegna si mangia da secoli il Casu Marzu, un pecorino letteralmente invaso dalle larve di mosca - e le università sono impegnate da anni in una sorta di risiko entomologico. Per ogni insetto alieno che arriva, e che rischia di sconvolgere la biodiversità esistente, esiste infatti un potenziale competitore, che può predarlo o sottrargli il nutrimento. Il compito di entomologi come Alberto Alma, ordinario dell’Università di Torino, è pianificare questa lotta biologica, che mira innanzi tutto a difendere le coltivazioni. «Il cinipide del castagno (Dryocosmus kuriphilus) - ci racconta - attacca le gemme di questa pianta e ha mandato in crisi l’economia pedemontana, finché non è stato introdotto il Torymus sinensis. Questo imenottero ha beneficiato di un cospicuo finanziamento ministeriale e sta facendo un ottimo lavoro di contenimento. Non sempre però si trova un limitatore naturale. Prendiamo lo Scaphoideus titanus: porta dentro di sé un patogeno che causa la flavescenza dorata della vite e il riscaldamento globale lo favorisce, perché aumentando le temperature, gli adulti vivono più a lungo e così sfuggono ai trattamenti insetticidi. È alloctono, esattamente come la Xylella fastidiosa, il batterio che uccide l’olivo; il primo è stato im- portato negli anni Cinquanta mentre la xylella è molto più recente».

Viene da lontano anche la Popillia japonica, che sta colonizzando il Parco del Ticino. «Allo stadio larvale, questo coleottero - ci spiega l’entomologo - divora 'solo' le radici delle piante, ma, quando si sviluppa, si riunisce a gruppi e attacca qualsiasi tipo di foglia, dalle graminacee alle drupacee, senza disdegnare i fiori». Per far fronte alla minaccia si ricorre a nematodi, microscopici vermi che si nutrono delle larve della popillia, «ma il sistema è molto costoso, per cui prevale ancora la strategia insetticida, attraverso prodotti chimici», osserva l’esperto. In questo momento, l’emergenza nazionale è la cimice asiatica. L’allarme è scattato con ritardo e l’animale sta elaborando da anni delle proprie strategie di adattamento. Poiché ogni esemplare non sopravvive che alcuni mesi, quando arriva l’inverno la cimice assale le abitazioni e i magazzini delle città, in cerca di un ambiente favorevole al letargo, per poi tornarsene in campagna con la stagione calda, quando si riproduce (400 uova a stagione). È allora che si trasforma nel flagello della frutticoltura: può danneggiare il 90% di un raccolto. Si pensa di debellarla diffondendo la vespa samurai ( Trissolcus japonicus) che depone le proprie uova dentro quelle della cimice. Alla schiusa, sfarfalla una vespina al posto del vorace emittero.

Nella comunità scientifica, tuttavia, esiste ancora qualche dubbio sull’opportunità di introdurre una specie aliena per combatterne un’altra, se non altro perché si sta ancora lavorando al contenimento del calabrone asiatico (Vespa velutina): oltre a indurre lo choc anafilattico anche in soggetti non allergici, si nutre di api operaie e quindi insidia una popolazione di impollinatori già decimata dall’uso di agrofarmaci neonicotinoidi. Questo predatore, peraltro, non è l’unico problema dell’Apis mellifera: «Stiamo tenendo attentamente sotto controllo - sottolinea infatti il professor Alma - un coleottero proveniente dal Sudafrica, l’Aethina Tumida, che si è insediato in Calabria nel 2014. Si sviluppa colonizzando i favi di api, fino a scacciarle».

(4 - fine. Le precedenti puntate sono uscite il 7 agosto, il 15 agosto e il 10 settembre)

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