mercoledì 7 giugno 2017
Catasto strade, manutenzione, responsabilità: troppi vuoti. Non si sa a chi appartengono, non vengono riparati e tutti i nodi vengono al pettine quando cedono
Il crollo della rampa di uscita da Annone Brianza della statale 36 verificatosi il 28 ottobre 2016 (Ansa)

Il crollo della rampa di uscita da Annone Brianza della statale 36 verificatosi il 28 ottobre 2016 (Ansa)

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Nei giorni scorsi sono partiti i primi avvisi di garanzia per il crollo del ponte di Fossano. Poteva uccidere, com’è successo, purtroppo, ad Annone Brianza, dove un cavalcavia vecchio e trafficatissimo ha ceduto sotto il peso di un Tir carico di bobine d’acciaio. Tragedia anche a Camerano: in quel caso, il ponte è 'sfuggito di mano' alla ditta che stava sollevandolo e si è schiantato su due coniugi che percorrevano la A14. Vizi di costruzione, manutenzione assente o malfatta, cause e concause che si sovrappongono, in un ginepraio di norme inapplicabili o, più spesso, inapplicate. E quando ci scappa il morto, ogni volta, si scopre che il destino è stato favorito dall’opacità delle responsabilità che avvolge la rete stradale e le sue infrastrutture. Lo ammette senza troppi giri di parole Maurizio Crispino, ordinario del Politecnico di Milano ed esperto della Struttura tecnica di missione del Ministero delle Infrastrutture: «Il primo problema, che si colloca ben a monte della manutenzione di un’opera pubblica, risiede nella conoscenza del patrimonio infrastrutturale.

Il decreto ministeriale 3484 del 1 Giugno 2001 sul catasto delle strade non è stato applicato dalla quasi totalità degli enti pubblici gestori di strade, laddove la norma li obbligava a costituire un archivio che contemplasse l’organizzazione geometrica, le dotazioni strutturali e tutte le specifiche di ogni arteria, compresi i ponti su cui passa. Queste informazioni avrebbero dovuto essere unificate nell’archivio nazionale delle strade. Quel decreto è stato disatteso». Insomma, in Italia i ponti sono degli illustri sconosciuti. Non si sa esattamente quanti sono, di chi sono e in che condizioni sono. Se questa è la situazione, ha ragione il presidente dell’Anas Gianni Armani quando afferma, come ha fatto nel corso dell’ultima audizione in Commissione ambiente, che «in tutti i casi non è lo stato di manutenzione la prima causa del crollo, anche se in alcuni è la concausa». Non lo è perché non si può accusare nessuno di non aver garantito la manutenzione di ciò che non è suo. Ad Annone Brianza la competenza della strada era presumibilmente della Provincia di Lecco ma forse non quella del ponte: sono in corso accertamenti per farsi un’idea di chi fosse l’infrastruttura crollata, chi dovesse verificarne le condizioni, a chi eventualmente spettasse chiuderla al traffico.

Quest’incertezza può generare il panico – nei giorni che seguirono alla tragedia di Ancona, la caduta di alcuni calcinacci dalla rampa d’accesso all’autostrada provocò l’immediata chiusura del casello di Fano – e comunque dissipa le poche risorse disponibili. L’Anas stanzia più di un miliardo all’anno in manutenzione, ma ne vorrebbe 1,4 in più per coprire il fabbisogno di una rete che comprende, tra l’altro, dodicimila viadotti. Il cemento armato invecchia più o meno come l’essere umano: dai sessant’anni in poi per tenersi in piedi richiede robuste iniezioni di ricostituente. Se però non si sa di chi sia un viadotto, oppure se non si hanno informazioni complete sulle sue caratteristiche strutturali, o, ancora, se non si è in grado di monitorare l’invecchiamento del patrimonio infrastrutturale e si ha la quasi certezza che nessuno chiederà mai conto del suo stato, allora si è nella condizione di moltissime amministrazioni, che è quella di attendere fatalisticamente che del problema della manutenzione si occupi, presto o tardi, un procuratore della Repubblica. Sia chiaro per che anche in quel caso il caos catastale e quello delle responsabilità giuridiche ed economiche renderà difficilissimo agli inquirenti ricostruire colpa e dolo. Quand’è venuto giù il ponte di Annone si è scoperto che nessuno aveva mai fatto una riunione per sapere a chi appartenesse.

Crispino conferma: «Questa è la condizione, purtroppo, di moltissime infrastrutture che utilizziamo quotidianamente. Sapere di chi è e come è realizzato e conservato un ponte su cui scorre una strada sulla quale passano mezzi di oltre cento tonnellate non è irrilevante ai fini della sicurezza e se chi autorizza il transito di mezzi pesanti, per di più eccezionali, non si interfaccia con la proprietà non può sapere se i ponti presenti lungo il tracciato percorso dai mezzi autorizzati sono in grado di sopportarne il passaggio». In Italia, ogni giorno migliaia di mezzi pesanti viaggiano su ponti dall’incerta paternità e sulla cui tenuta non vi è certezza, perché le opere non sono completamente note e men che meno monitorate. Eppoi c’è la questione dei soldi, quelli che mancano. Il Patto di Stabilità è stato per anni il pretesto per giustificare anche in questo campo il disinteresse tutto italico per la prevenzione. I tagli ci sono stati ovunque, è risaputo, ma non si è mai visto nessuno protestare perché fossero controllati i pilastri di un ponte o l’asfalto di una tangenziale, con la conseguenza che i pochi soldi rimasti sono stati spesi altrove. Intanto, secondo l’Upi, la spesa per chilometro nella viabilità passava da 7,3 a 2,2 euro: il patrimonio infrastrutturale di Province e Comuni oggi è il meno soggetto a controlli e manutenzioni, rispetto ai ponti ferroviari e autostradali.

D'altronde, anche il presidente dell’Anas, di fronte alla Commissione Ambiente di Montecitorio, parlando di manutenzione, ha ricordato come prima cosa che la sua società sta cercando di «recuperare il rilevante gap manutentivo accumulato negli anni». Scaricabarile? No, ovvietà. Per decenni la politica nazionale delle infrastrutture ha proceduto, conferma Crispino, in senso contrario a quello che suggeriscono i manuali di costruzione e le esperienze internazionali: «Intervenire subito, quando si nota un’infiltrazione, una crepa o i primi segni di degrado è innanzi tutto conveniente sul piano economico – spiega l’esperto –. Presupposto è però avere un quadro certo del patrimonio infrastrutturale da gestire e delle responsabilità di ogni gestore. La carenza di risorse viene spesso invocata come limite alla manutenzione eppure la manutenzione preventiva serve proprio a risparmiare, perché ricostruire un ponte che è crollato costa certamente di più, come dimostra il caso di Fossano. Non a caso, negli Usa o in India la cultura tecnica corrente impone di intervenire ai primi segni di degrado, facendo appunto la manutenzione preventiva». Le tecnologie disponibili permettono di monitorare le condizioni di un’infrastruttura, dell’asfalto e della segnaletica. L’Anas sta installando sensori su tremila chilometri di strade e ha coinvolto addirittura l’Agenzia Spaziale Italiana nella diagnostica. Esistono strumenti più limitati, ma egualmente efficaci, che costano poche migliaia di euro, eppure pochissimi enti gestori ne dispongono con la conseguenza che non possono verificare in modo approfondito e oggettivo com’è stato eseguito un appalto.

Secondo Crispino, che ha ideato e organizza il congresso mondiale della manutenzione delle infrastruttura stradali (il WCPMA 2017 si terrà dal 12 al 16 giugno a Baveno), il nodo centrale della questione resta da un lato quello del catasto stradale e dall’altro quello della necessità di istituire un’Autorità che sanzioni gli enti gestori che disattendono i propri obblighi, prima che debbano intervenire le Procure: «Negli Stati Uniti se un ente gestore non ha un sistema di gestione efficiente non riceve un dollaro dal governo federale» ricorda Crispino. Il ministero delle infrastrutture, spiega, ha deciso di lanciare un programma di manutenzione «che non ha precedenti». A nostro avviso servirebbe un passo in più: si potrebbe valutare una norma sulla gestione della manutenzione che portasse all’istituzione di una sorta di Enac, l’ente che vigila, tra l’altro, sulle condizioni e sulla sicurezza delle infrastrutture aeroportuali, per tenere sotto controllo strade e ponti. Servirebbe a salvare vite e soldi, mentre oggi ci si accontenta di capri espiatori. «Oggi, in caso di disastro, si punta il dito sempre ed esclusivamente sul funzionario pubblico responsabile di un’opera – commenta l’esperto del governo – ma c’è da capire se non ha operato correttamente per negligenza o mancanza di risorse; nel secondo caso, egli è responsabile solo di come ha usato i fondi attribuitigli ma non di come non ha usato quelli che mancano, perché per questi ultimi le responsabilità andrebbero ricercate in chi approva i bilanci dell’ente gestore».

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