martedì 10 aprile 2018
Commerci, cultura, politica: viaggia in treno l'apertura di Pechino all'Europa e ai vicini Paesi centroasiatici
Un treno cinese (Ansa)

Un treno cinese (Ansa)

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È più grande della Grande Muraglia, il progetto 'One Belt One Road'. Un’impresa infrastrutturale su scala globale: non lo si vedrà con la stessa evidenza con la quale da chilometri di distanza si vede quella barriera che nel corso di secoli la Cina eresse per difendersi dalle invasioni, anche perché si compone di molti diversi aspetti tra loro integrati (ferrovie, strade, telecomunicazioni, porti, poli industriali, ecc.) ma la sua importanza la supera di gran lunga. Se la muraglia era intesa a tenere lontani altri popoli, e non funzionò, quest’altra, che è la maggiore opera mai intentata da alcuno nella storia, è intesa ad avvicinarli. Segna un cambio di prospettiva radicale: dalla difesa arroccata all’apertura. E sembra funzionare.

Il primo treno proveniente dalla Cina giunse ad Amburgo nel gennaio del 2008, dopo aver attraversato raccordi ferroviari costruiti su ponti e sotto gallerie lungo tutta l’Eurasia: questa è infatti un unico continente, anche se per via delle sue grandi distanze siamo abituati a pensarla come due entità separate, Europa di qua, Asia di là. Quel primo, lungo convoglio trasportava materiale elettrico e vestiti, ed era incoccardato a festa come lo erano le fumanti locomotive che nell’800 arrivavano nei paesi sperduti del Far West. Il treno giunto ad Amburgo aveva attraversato in due settimane Cina, Mongolia, Russia, Bielorussia, Polonia e Germania: se lo stesso carico fosse giunto via mare avrebbe impiegato circa due mesi e il trasporto sarebbe stato enormemente più inquinante. La connessione via terra con Amburgo è divenuta regolare l’anno successivo; poi anche Duisburg e da altre città tedesche si sono unite. Quindi in Francia, Polonia, Ungheria, Spagna hanno preso ad arrivare i treni cinesi. Nel gennaio 2017 il primo convoglio giunto a Londra da Yiwu dopo un viaggio di 12 mila chilometri che ha inaugurato il raccordo ferroviario più lungo al mondo. A fine 2017 anche l’Italia è entrata nel club col primo treno da Mortara a Chengdu: la Cina importa, oltre a esportare.

I raccordi ferroviari dalla Cina sono destinati a estendersi in ogni direzione e a portare non solo merci ma anche persone: si parla di linee ad alta velocità per passeggeri che vadano da Pechino a Londra e al sudest asiatico. E non a caso nel 1993 l’Organizzazione mondiale del turismo (Wto dell’Onu) ha preso a promuovere gli itinerari via terra verso la Cina: questi infatti consentono di apprezzare tutto il territorio, non solo la città in cui si arriva, e di far tappa anche dove non ci sono aeroporti. Solo così si può conoscere un paese e non solo le sue aree metropolitane, che tra l’altro sono ovunque sempre più uguali. 'One Belt, One Road' (si può tradurre 'una cinghia, una strada') non è pensata anzitutto per i rapporti con l’Europa: si rivolge ai paesi vicini. Non a caso il primo passo è stato mosso nel 1990, completando la ferrovia tra Pechino e la capitale del Kazakhstan, Astana. E quel luogo che era isolato dal mondo entro steppe sconfinate nel giro di qualche anno è divenuto snodo rilevante lungo le rotte eurasiatiche, tanto che nel 2017 è stato sede dell’Expo mondiale e in quell’occasione ha visto ridisegnata la sua struttura urbana.

È un impegno economico, ma ha immediati risvolti strategici: si tratta di usare l’economia per promuovere i rapporti di buon vicinato con paesi coi quali potrebbero sorgere frizioni. Esempio è quanto sta maturando col Pakistan. Un corridoio ferroviario si sta distendendo tra Kashgar nella regione cinese di Xinjiang e la città portuale di Gwadar, nel Belucistan, la maggiore provincia pakistana. È quel che la Cina chiama 'diplomazia periferica' fondata, come ha detto il presidente Xi Jinping nel 2013 in un un convegno sulla politica estera, sul 'mantenere stabili i paesi vicini'. Anche verso l’India e il Vietnam, coi quali vi sono stati recenti conflitti (nel 1962 con la prima, nel 1979 col secondo) e le tensioni di confine persistono, la Cina sta distendendo le sue reti infrastrutturali.

Il concetto è espresso nella formula 'win win' (vinci tu, vinco anch’io) spesso usato nei proclami di politica estera cinese per indicare la ricerca di una mediazione che soddisfi tutte le parti, e in tempi in cui sembra tornare di moda la minaccia reciproca, non è poco. Che i rapporti economici possano contribuire alla distensione è quanto già nel 1967 Paolo VI sostenne nell’enciclica Populorum Progressio: 'Lo sviluppo è il nuovo nome della pace'. Allora si era in un mondo eurocentrico che si dibatteva con gli strascichi della decolonizzazione. Ora siamo in un mondo policentrico e il colonialismo sembrerebbe tramontato, ma le minacce di conflitti persistono e trovano alimento nell’instabilità sociale derivante dalla crisi economica.

One Belt One Road è inteso come riedizione di quella che fu la 'Via della Seta', il sistema di carovaniere e di rotte marittime attraverso le quali sin da epoche remote avvenivano gli scambi eurasiatici che hanno arricchito non solo l’economia dei paesi che ne hanno beneficiato. La filatura della seta nell’antichità era considerata un segreto di stato in Cina: poi divenne uno dei pilastri dell’economia di Firenze e indirettamente contribuì al suo Rinascimento. E su quelle vie dalla Cina ci sono arrivati molti altri prodotti, dalla polvere da sparo alla bussola, alla carta. La stampa in Cina era praticata ben prima che Gutenberg la diffondesse in Europa. Su quelle stesse vie viaggiarono anche i missionari nestoriani che per primi portarono il cristianesimo in Asia, mentre dall’altro canto il buddismo, nato in India, si diffuse verso oriente e verso occidente. Perché, pur aperte per motivi commerciali, quelle rotte sono anche strumento di reciproca conoscenza e veicolo di cultura. Tanto che nel 2016 l’Unesco ha inclusa la parte cinese della via della seta nell’elenco del patrimonio mondiale dell’umanità.

Va detto che l’iniziativa One Belt One Road è anche frutto di una cultura economica diversa da quella che ha informato le politiche occidentali di questi ultimi decenni. Negli anni successivi al 2008, quando scoppiò la crisi, ovunque nel mondo occidentale le classi medie si sono andate impoverendo mentre com’è noto è cresciuta a dismisura la ricchezza di pochissimi (l’ormai proverbiale 1 per cento che possiede il 50 percento della ricchezza del mondo). Nello stesso periodo invece in Cina è cresciuta tutta l’economia e si è ampliata la classe media; per il 2022 ci si attende (rapporto McKinsey) che oltre 550 milioni di cinesi vi faranno parte, più o meno quanti sono i tutti cittadini europei. Attraverso gli investimenti in opere infrastrutturali la politica economica cinese mira a togliere entro il 2020 tutte le sacche di povertà ancora esistenti nel paese. Questi investimenti sono sempre stati un motore trainante per l’economia reale. Lo furono anche in Europa nel secondo dopoguerra, prima che la politica economica si volgesse prevalentemente agli aspetti finanziari e prendesse a dominare la tendenza a usare il denaro per produrre denaro, più che per produrre e far circolare beni. Grazie a quel genere di politica oggi la Cina, che all’epoca di Mao era un paese arretrato, sta tallonando gli Stati Uniti, sia sul piano economico, sia su quello dello sviluppo tecnologico.

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