mercoledì 3 ottobre 2018
L’ultima tappa del nostro viaggio con «Destinazione Sinodo» si conclude nel giorno in cui l’assemblea viene aperta dal Papa
Giovani al Circo Massimo durante l’incontro con il Papa il 12 agosto (Siciliani)

Giovani al Circo Massimo durante l’incontro con il Papa il 12 agosto (Siciliani)

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L’ultima tappa del nostro viaggio con «Destinazione Sinodo» si conclude nel giorno in cui l’assemblea viene aperta dal Papa (ma altre riflessioni tematiche seguiranno nei giorni dei lavori) con un dialogo sui grandi temi sinodali tra suor Alessandra Smerilli, che partecipa all’assise in qualità di uditrice, e don Sergio Massironi, giovane sacerdote milanese responsabile degli oratori di Cesano Maderno e insegnante di liceo.

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Ci sono tanti modi in cui possiamo guardare ai giovani. Il Sinodo dei vescovi che inizia oggi ha il merito di avere attivato i nostri sguardi e ora induce la Chiesa a far sintesi attraverso l’ascolto, la preghiera, lo scambio. Discernere è, infatti, un esercizio in cui quanto ciascuno ha visto diviene racconto e reciproca contaminazione, alla ricerca di ciò che Dio ha in serbo. Qual è il modo divino di vedere i giovani? Quanto le nostre visioni ci condurranno vicino alla sua? Avremo il coraggio di ripensare la Chiesa, cioè anzitutto noi stessi, per servire uno sguardo migliore del nostro?

Suor Alessandra Smerilli. La frase che sento più spesso nei convegni e nelle occasioni in cui si parla di giovani è: 'Però c’è del buono'. In una lettura generalmente negativa – sono incostanti, fragili, sregolati, bruciano le tappe, incapaci di assumersi responsabilità... – si indicano alcuni segni positivi: allora 'c’è del buono', e spesso quel buono è ciò che più si avvicina alle nostre consuetudini e ai nostri valori. Ora, posso forse immaginare che Dio mi guardi, mi scruti, e con un sospiro infine sentenzi: 'Però c’è del buono'? Può essere il Dio che di fronte all'essere umano gioì perché era cosa molto buona (Gen 1,31)?

Don Sergio Massironi. No, non può essere lo stesso Dio. Specie dove il retrogusto è amaro e prevalgono lo sconcerto e la sfiducia da cui è tentata ogni generazione in rapporto al nuovo. Il fatto è questo: avvertiamo uno scarto, che in rapporto ai bambini riusciamo a dominare perché richiedono cura e si affidano a noi adulti, ma che con la maggiore età ci mette in crisi. Sono adulti, infatti, anche quelli che chiamiamo giovani, ma in una fase della vita più libera, viva e aperta della nostra: l’overture. Hanno una prestanza fisica, oltre che un’elasticità mentale, che abbiamo smarrito o che alla loro età ci pare di non aver avuto. Quel che, guardandoli, chiamiamo disordine è spesso la bellezza che ci manca, la parte di noi con cui più difficilmente siamo disposti a entrare in contatto. Nella pastorale preferiamo allora essere indaffarati con altre età, perché i giovani incarnano la domanda: 'Che cosa hai fatto di te?'. La bellezza dei giovani è un’enorme provocazione, un terremoto da accettare.

Suor Alessandra.
Non si può stare con loro senza cambiare qualcosa di noi. Forse vediamo caos, vita un po’ disordinata, tanti interessi, poca stabilità, ma in fondo la redenzione è proprio un risalire all'ordine, una progressiva scoperta della propria originalità facendo tesoro anche di sbandamenti, contraddizioni, cadute. Oggi è evidente che non possiamo più immaginare l’educazione – almeno quella che vorremmo – come una via retta, un percorso lineare in cui al ragazzo sono idealmente tolte le esperienze negative, quasi a risparmiargli la libertà.

Don Sergio. Sarebbe prezioso recuperare il paradigma dell’uscita, dell’esodo. Dio vede i millennials come sue creature, ed è certo che possano arrivare a cogliere la propria parola, quella che quaggiù nessuno ha ancora pronunciato, perché era in serbo per loro. D’altra parte ciò avverrà in movimento, attraverso notti di liberazione e anni di deserto non privi di segni, di prove e di esperienze normative. A noi educatori occorre non dimenticare, da un lato, che la nostra stessa storia di salvezza è tutt’altro che risolta, e dall’altro che la via diritta non è mai stata la strada giusta: rappresentò una tentazione già per Israele, che uscito dalla schiavitù voleva tracciare la retta del cammino, ma «Dio non lo condusse per la strada del paese dei Filistei, benché fosse più corta» (Es 13,17). Devo dire che quotidianamente incontro ragazzi molto realisti, pronti ad abbandonare le proprie aree di comfort non appena c’è il presentimento di una maggiore libertà, di una crescita. Li vediamo 'instabili' nella vita sociale e negli affetti, senza saper cogliere l’implicito bisogno di esodo, di liberazione.

Suor Alessandra. Effettivamente, spesso ci lamentiamo e andiamo in crisi davanti a giovani che non s’iscrivono alle associazioni, che non si tesserano, che vivono appartenenze magmatiche, fluide. E non sappiamo leggerne l’esigenza vitale: 'Ci sto finché mi dice qualcosa, ci sto finché sei credibile, ci sto finché qualcos’altro non mi convince di più'. Rispetto all’atmosfera asfittica e ai veleni che si accumulano in molte esperienze comunitarie, non possiamo non cogliere quanto ci interpelli questo bisogno di ossigeno. Stanno davvero crescendo personalità più deboli, incapaci di legami forti e di stabilità? Io ritengo che ci stiamo arricchendo in umanità. Persone che, magari su percorsi tortuosi, discese e risalite, su tornanti impervi, arrivano a fare delle scelte. Sono per ciò stesso più ricche, più complete, più risolte. Semmai c’è da chiederci se dobbiamo adattare i giovani a un modo di essere e fare comunità, o non sono le nostre comunità a doversi trasformare a loro misura. Quali comunità per appartenenze liberanti? Quali tessere o vincoli abbandonare, e quali legami invece non far mancare?

Don Sergio. Si può dire anche: quali adulti, e quale maturità umana e spirituale per accompagnare giovani così schietti ed esigenti? Dobbiamo ammetterlo: siamo meno che mai in condizione di proporci come guide di altri. L’onere della prova si è ribaltato: ora tocca a noi dimostrare affidabilità, niente ci è dovuto. Invece di leccarci le ferite o di recriminare sulle posizioni perse, c’è da fare il punto su chi siamo e su cosa può trovare chi si addentri nella nostra vita. Quando la fiducia scatta, il cuore dei giovani si apre per intero. A volte occorrono anni. Si viene studiati: 'Gli importo, ma saprà anche decifrare? Sa capire? Sa contestualizzare? Si scandalizzerà?'. Ci è chiesto oggi di accogliere racconti, di non giudicare, di curare le ferite e ricomporre ciò che è infranto, lasciando emergere un ordine che è frutto di misericordia e di grazia. Ci sono beni il cui splendore appare dopo averli calpestati: è la logica della felix culpa. Ebbene, la grande risorsa evangelica è quella di mettere in campo una simile autorità, che solleva e genera autonomia. Il contrario di quella temuta. Che esista un Altro, grazie a cui io diventi più io, è un’esperienza di natura escatologica, quindi non comune, ma sorprendente. Per me è il grande tema biblico dell’alleanza: imbattersi in una dedizione, in un interesse, in un amore senza ragioni che contengono l’appello a fidarsi e a procedere insieme.

Suor Alessandra. Alleanza, fiducia. Uno dei problemi più grandi dell’Italia, che fa franare i patti sociali e generazionali e fa emergere risentimenti diffusi, è il non sapersi alleare e far rete, il non saper lavorare insieme. Sempre una realtà deve prevalere sulle altre: non conta il risultato, ma che io o la mia realtà siamo visibili. Forse dai giovani possiamo imparare qualcosa di diverso: sono più semplici di noi nell’affrontare le situazioni, non si pongono generalmente il problema di chi debba emergere e sanno naturalmente condividere. E questo lo si comprende perché, nonostante tutto – dallo studio allo sport, alla società – li spinga a essere competitivi, da loro nascono idee di sharing economy, le piattaforme condivise, l’impegno nel rispetto dell’ambiente e tante altre pratiche di condivisione. Viene da chiedersi: non erano la generazione individualista, che vive di una tecnologia che li isola dal mondo? Dobbiamo forse passare più tempo con loro, e scopriremo che 'insieme' è una parola sentita tutt'altro che banale. Una parola che ci interpella e ci sfida.

Don Sergio. Così tocchi il tema degli affetti, decisivo a ogni età. Noi avvertiamo semplicemente che a diciotto o vent’anni amicizia e amore hanno una carica fisica che ci fa vacillare. Eppure è di nuovo la Bibbia a sciogliere le nostre paralisi, quando ci rivela un Dio che non teme il corpo, le passioni, la tenerezza. Per quanto disabituati a crederlo, nel Cantico dei Cantici e in certe pagine profetiche vediamo il corpo stesso dei giovani e il loro cuore come una sua Parola. È forte la richiesta che la Chiesa osi linguaggi più arditi, più concreti, più umani. Ebbene, ospitare i racconti di chi cerca, sente, tocca la presenza altrui nel calore e nella drammaticità della giovinezza può consentire all'evangelizzatore di recuperare ciò che forse ha sepolto: una carica affettiva che deve investire il suo messaggio, dando carne e sangue alla verità. Essa o è contemporanea e trafigge il cuore (At 2,37) o non è.

Suor Alessandra. Sì, il corpo vissuto, a volte all'estremo, rappresenta per noi un’opportunità di apertura all’esperienza di Dio. Ci dà occasione per letture nuove del Vangelo. In questo senso, credo che la strada da percorrere non sia quella, indicata da molti, di adattare il Vangelo al linguaggio e alla cultura dei giovani. Piuttosto, imparando da loro, dal loro modo di abitare il corpo e la realtà, possiamo leggerlo in modo diverso. Incarnato, appunto.

Don Sergio.
Dobbiamo solo aver meno paura. Gli occhi di Dio sono più limpidi dei nostri. Meno facili allo scandalo: vedono il bene, perché cresca. Il punto è se noi vogliamo esserci e vedere.

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