Gli eco-investimenti sono la via maestra
martedì 24 settembre 2019

Il segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres, ha riunito a New York un summit sul clima, potenzialmente importantissimo. L’Italia è rappresentata dal presidente del Consiglio e dal ministro dell’Ambiente. Scopo della Conferenza è porre in evidenza lo scostamento fra gli obiettivi dell’Accordo di Parigi, che mira a limitare l’aumento di temperatura a +1,5 gradi centigradi rispetto all’era preindustriale, e la traiettoria su cui il mondo si sta muovendo. Il quadro non è incoraggiante. Le emissioni globali annue di gas serra continuano a crescere e l’aumento di temperatura previsto per fine secolo, se anche i governi implementeranno le politiche annunciate alla Cop21 di Parigi (i cosiddetti National Determined Contributions, NDCs), supererà probabilmente i +3 gradi centigradi. Senza un tempestivo cambio di passo nelle politiche climatiche dei principali Paesi emettitori, le implicazioni economiche, sociali e politiche degli scenari che si prefigurano saranno per tutti molto gravi.

Se la politica finora non si è dimostrata pienamente all’altezza di questa grande sfida, oggi si riscontra una crescente sensibilità dell’opinione pubblica sui temi della sostenibilità ambientale. Negli ultimi quattro anni, l’ambiente e il clima, da questioni riservate ad attivisti e addetti ai lavori, sono diventati temi quotidianamente dibattuti da cittadini e mezzi d’informazione. Con l’enciclica Laudato si’, papa Francesco ha spiegato la necessità di un’ecologia integrale come nuovo paradigma di giustizia; i giovani di tutto il mondo hanno iniziato a chiedere a gran voce il riconoscimento del legittimo principio dell’equità intergenerazionale. In ogni angolo del globo è possibile cogliere i segnali di questa aumentata consapevolezza, ma è soprattutto sui Paesi avanzati che ricade il compito di guidare il pianeta terra verso una saggia transizione ecologica, in grado di conciliare sviluppo e sostenibilità. Si sta dunque delineando una grande opportunità politica, soprattutto per l’Europa.

Infatti l’Europa è la regione che in anticipo rispetto al resto del mondo è stata capace di tradurre la sensibilità dei cittadini sui temi ambientali in impegni politici. Prima con la 'Strategia 20-20-20', poi con l’approvazione degli obiettivi al 2030 che mirano a ridurre le emissioni del 40% rispetto ai livelli del 1990, ora con il dibattito sulla decarbonizzazione. Aver affrontato le politiche climatiche a livello continentale ha consentito di raggiungere risultati che difficilmente avremmo ottenuto decentralizzando le decisioni a livello nazionale. Il rammarico per la mancata approvazione della neutralità carbonica entro il 2050 da parte del Consiglio Europeo dello scorso giugno, non può costituire una ragione per rinunciare a consolidare la leadership europea in materia ambientale. La ritrosia dei Paesi dell’Europa Centrale, fortemente dipendenti dal carbone, e una politica economica che nella sua impostazione corrente impedisce di cogliere appieno le opportunità insite nella transizione energetica sono i principali motivi per cui l’Europa si presenterà domani a New York con una mera dichiarazione d’intenti, non con un impegno per la decarbonizzazione completa entro una certa data. Tuttavia, anziché conformarsi a questa situazione non ottimale e giocare al ribasso, occorre rilanciare.

In Europa può e deve nascere un piano strategico per l’ambiente di ampio respiro e ricco di coraggio, libero dai burocratismi e dalle considerazioni opportunistiche con cui la questione è stata spesso affrontata fino a oggi. Lo stesso linguaggio deve mutare. Non è sufficiente, è forse sbagliato, limitarsi a individuare i 'costi' e le relative modalità di finanziamento dell’azione di contrasto ai cambiamenti climatici. È priva di fondamento l’idea che le politiche ambientali debbano essere restrittive. Tutti noi ricordiamo i 'gilet gialli' che per mesi hanno messo a ferro e fuoco Parigi per protestare contro una tassa sul diesel che nelle intenzioni del governo costituiva il mezzo per disincentivare l’uso dei combustibili fossili. Bisogna ribaltare l’approccio e modificare gli strumenti con cui affrontare la sfida. La tassazione è una leva, ma non è l’unica disponibile per perseguire la decarbonizzazione. Gli investimenti devono diventare la via maestra delle politiche per l’ambiente, i cui effetti sull’economia devono essere espansivi. Questo è il tempo di sottolineare i benefici, non i costi della transizione ecologica. Cambiamenti climatici, crescita lenta, concentrazione del denaro, aumento della povertà, flussi migratori, esplosione degli estremismi sono fenomeni tra loro legati e richiedono una stretta cooperazione internazionale per dare alla popolazione mondiale (11,2 miliardi di persone nel 2100 secondo le previsioni dell’Onu!) un futuro rispettoso della dignità umana e di pacifica convivenza.

Con le dichiarazioni di Giuseppe Conte a Bari e di Roberto Gualtieri a Helsinki, la questione ambientale è stata collocata al centro delle linee programmatiche dell’esecutivo. L’Italia deve tornare a svolgere un ruolo propulsivo in Europa e nel mondo, fidando sulla forza delle idee e arrecando il contributo culturale che la storia le impone. L’Italia può svolgere un ruolo importante sui due fronti su cui è necessario agire. Sul piano globale, l’Europa potrebbe farsi promotrice dell’istituzione di un 'Climate club' che abbia il compito di contenere le emissioni di CO2, all’interno della cornice delle regole del commercio internazionale, coinvolgendo immediatamente Usa e Cina e cooptando in seguito le altre grandi potenze demografiche del pianeta. Sul piano interno, occorrerebbe varare un programma di investimenti europeo dedicato a contrastare i cambiamenti climatici, a mettere in sicurezza il territorio, a rinnovare le grandi aree urbane del continente. Siffatto programma innalzerebbe la produttività del sistema, ne rilancerebbe la crescita, riassorbendo la disoccupazione e offrendo nuove prospettive alle giovani generazioni nel rispetto delle compatibilità di bilancio, attenuerebbe le sperequazioni, rafforzerebbe la coesione politica dei Paesi membri della Ue e collocherebbe nuovamente l’Europa al centro dello scacchiere politico mondiale.

Il raggiungimento di questi obiettivi richiede di fuoriuscire dalla saggezza convenzionale che ha ingessato il dibattito pubblico europeo negli ultimi lustri e di dare vita a un linguaggio nuovo. Soprattutto, richiede coraggio.

Economista, Università Luiss, presidente dell’Associazione Guido Carli

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