Profughi, giusto ridistribuirli. Attenti alle cifre
martedì 29 settembre 2020

Sappiamo che l’Unione Europea è un luogo di tensioni e di equilibrismi, di compromessi e di arretramenti, ma anche in certi momenti di accelerazioni e di svolte inattese. Altre volte invece una retorica magniloquente serve a velare scelte di basso profilo e soluzioni contraddittorie. Per giudicare ciò che finora è trapelato del piano della Commissione Ue per superare gli accordi di Dublino, bisogna però partire da un dato. Delle 675.670 richieste di asilo presentate nell’Unione Europea nel 2019 – Regno Unito ancora compreso – la Grecia ne ha registrate 75.000, l’Italia 35.000.

La quota del nostro Paese supera di poco il 5%. I partner più investiti dall’obbligo di accoglienza umanitaria sono risultati nell’ordine la Germania, la Francia e la Spagna, tutte al di sopra dei 100.000 richiedenti (si veda la tabella 1 in pagina). Con andamenti di questo tenore, pur ammettendo che nel 2020 la quota italiana risalga un po’ per effetto degli arrivi dei mesi estivi, un eventuale meccanismo di redistribuzione obbligatoria ci vedrebbe nella scomoda posizione di Paese destinato a ricevere quote aggiuntive di richiedenti asilo, anziché titolato a dirottarle verso altre destinazioni. Si può obiettare che occorre tenere conto dei dati pregressi, ossia degli anni più drammatici degli sbarchi sulle nostre coste, tra il 2015 e il 2017. Il problema è che anche in questo caso i dati non confermano le rappresentazioni.

Rapportando il numero di rifugiati alla popolazione residente, l’Italia rimane ben lontana dai Paesi europei più impegnati sul tema: siamo a quota 3,4 ogni 1.000 abitanti, contro i 25 della Svezia e i 15 della 'cattiva' Austria (tabella 2). Difficile pensare a un trattamento diverso per i profughi che arrivano dal mare, rispetto a quelli che giungono sul suolo della Ue via terra o anche in aereo. Purtroppo invece nel nostro Paese si discute di questi temi, ingigantendo il fenomeno drammatico degli sbarchi e assumendo acriticamente la retorica sovranista dell’Italia lasciata sola dall’Europa matrigna. Solo adottando una prospettiva compiutamente europea si possono giudi- care in modo sensato le (poche) luci e le (molte) ombre della bozza di piano della Commissione Ue. Tra le luci se ne intravedono essenzialmente due.

La prima è l’ammissione che le migrazioni sono un fenomeno strutturale e inestirpabile. Di conseguenza, se si vuole evitare di sovraccaricare il canale dell’asilo di richieste spurie, si dovrà cautamente riaprire il canale dell’immigrazione per lavoro, non solo altamente qualificato. Non è un oggetto trattato nel piano, ma quanto meno prefigurato. Il secondo spunto apprezzabile consiste nel superamento dell’assurdità delle assegnazioni alla cieca della responsabilità di accoglienza, siano esse riferite al Paese di primo ingresso o a quello di una successiva ricollocazione, riconoscendo legami di parentela ed esperienze pregresse di studio e lavoro. Non è ancora la libertà di scelta, ma sarebbe certamente un passo nella direzione del buon senso e dell’efficacia: le ricerche sul tema mostrano che l’inserimento dei rifugiati riesce meglio quando possono contare sull’appoggio delle reti familiari. Tra gli aspetti critici del piano, tali da suscitare le proteste di molti difensori dei diritti umani, tre appaiono particolarmente deficitari. In primo luogo, non è passato il principio di una condivisione obbligatoria degli oneri di accoglienza. I governi recalcitranti potranno svicolare occupandosi dei rimpatri o finanziando l’accoglienza nei paesi di primo ingresso: più o meno quanto proposto dall’ungherese Orbán.

La tutela dei diritti umani rimane facoltativa, a differenza delle regole su economia e concorrenza. Il secondo motivo di delusione consiste nell’enfasi sui rimpatri, forse il termine citato con maggiore insistenza nella presentazione della bozza di piano. La Commissione è apparsa più interessata alla rapidità e all’effettività dei respingimenti che alla protezione di coloro che hanno diritto alla protezione umanitaria. Alcuni l’hanno definito un piano sui rimpatri, anziché un piano per l’accoglienza. Addirittura, per citare un solo aspetto, gli hotspot in prossimità dei confini dovrebbero diventare, da quanto si è capito, una sorta di presidi extraterritoriali sottratti alla giurisdizione dei Paesi in cui si trovano, in cui trattenere i migranti non autorizzati a proseguire nell’iter della domanda di asilo, in attesa di una (supposta) rapida espulsione.


Rapportando il numero di rifugiati alla popolazione residente, il nostro Paese rimane ben lontano dai più impegnati sul tema: siamo a quota 3,4 ogni 1.000 abitanti, contro i 25 della Svezia e i 15 della 'cattiva' Austria

Gli Stati che non accettano di accogliere dovrebbero contribuire non solo finanziando i rimpatri, ma anche intervenendo sul territorio di altri Stati per farsene carico. Si profila, l’immagine è volutamente forte, l’ombra di una serie di Guantanamo su suolo europeo. Al pugno duro sulle espulsioni si collega il terzo grave elemento del piano della Commissione: un atteggiamento ricattatorio nei confronti dei Paesi del Sud del mondo. Ogni accordo con loro, secondo il piano, dovrebbe contenere clausole che li obblighino ad accettare i rimpatri dei loro cittadini espulsi, prevedendo anche tagli degli aiuti nonché degli accordi commerciali per chi non collabora. La severità che non si vuole adottare con il blocco di Visegrad, e con gli altri partner riluttanti, verrà riservata a Paesi troppo deboli per opporsi. Non è davvero questa l’Europa che vogliamo.

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