Giustizia sarà (speriamo). Il processo Regeni fermato
sabato 16 ottobre 2021

È stato fermato, dunque, il processo di Roma al generale e ai tre colonnelli dei servizi segreti egiziani accusati della barbara uccisione di Giulio Regeni. I giudici della terza Corte d’Assise hanno deciso che è non possibile giudicarli in contumacia, in quanto non è avvenuta la formale notifica delle loro imputazioni. Ciò è certamente vero, anche se i fatti lasciano pensare che i quattro abbiano fatto di tutto per non ricevere quelle carte dall’Italia. Secondo la Procura capitolina non ci sono dubbi: hanno «sistematicamente» operato per «fuggire dal processo». Né il governo di quello stesso Paese ha agevolato l’accertamento delle responsabilità. Anzi, 39 delle 64 rogatorie inviate da Roma – ha ricordato il pubblico ministero Sergio Colaiocco – sono rimaste senza risposta.

Insomma, i giudici romani non hanno tenuto conto della forte resistenza che i tentativi di notifica hanno incontrato da parte egiziana. A cominciare dallo stesso presidente Abdel Fattah al-Sisi, come ha raccontato in una deposizione come testimone nella fase delle indagini preliminari l’ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Ma nel campo del diritto, quasi sempre la forma è anche sostanza. Da qui l’ordinanza della Corte.

Ora, a oltre 5 anni dall’assurda morte di Giulio Regeni, bisogna tornare indietro di una casella, quella del giudice dell’udienza preliminare, secondo il quale c’erano invece i presupposti per un processo: ci sarà una nuova rogatoria, la sessantacinquesima, ed entro gennaio una nuova udienza preliminare. Nel frattempo, si spera che il governo di Roma tornerà a farsi vivo con quello del Cairo per chiedere quella collaborazione che fin qui non c’è stata. Vedremo, ma la strada sembra essersi fatta più stretta.

Sarebbe stata (sarà, speriamo) la prima volta, a memoria, di un processo in Italia a funzionari di un governo straniero. Oltre 20 anni fa furono condannati a Roma (anch’essi in contumacia) sette militari argentini per la triste sorte toccata ai desaparecidos italiani, e si ricordano alla sbarra anche gerarchi nazisti come Kappler, Priebke, Hass, per l’eccidio delle Fosse Ardeatine. Ma si trattava di appartenenti a regimi ormai tramontati e, nei casi riguardanti i criminali in divisa delle SS, di atrocità commesse sul suolo italiano. Stavolta sarebbe stato (sarà, speriamo) diverso: gli inquirenti italiani sono convinti di avere le prove, anche testimoniali, che quattro agenti segreti di un Paese ufficialmente alleato abbiano torturato e ucciso un giovane nostro connazionale nella loro capitale, cercando poi in ogni modo di camuffare la dinamica dei fatti e di depistare le indagini.

Senza la collaborazione del Cairo e senza la presenza in aula degli imputati, sarebbe stato (sarà, speriamo) comunque un regolare processo, secondo le norme e le garanzie previste dall’ordinamento di uno Stato democratico, come dimostra la stessa decisione presa l’altra sera in favore dei quattro ufficiali egiziani. Un passo importante, per la sua portata giuridica, ma anche perché rappresenterebbe un potente segnale. Inutile negare, infatti, che se gli occhi erano puntati sull’aula bunker del carcere di Rebibbia, i pensieri di molti andavano a un altro carcere, quello egiziano di Tora, dove lo studente dell’università di Bologna Patrick George Zaki è rinchiuso ormai da quasi due anni. Ne rischia 25 di reclusione per accuse che è difficile considerare verosimili, ma sicuramente sconta la sua attività a favore dei diritti umani.

Giusto un paio di giorni fa, parlando a Budapest a un vertice con i Paesi europei del gruppo di Visegrad, al-Sisi aveva avvisato: «Non abbiamo bisogno che nessuno ci dica che i nostri standard sui diritti umani comportano violazioni». E per essere ancora più chiaro aveva aggiunto di «non accettare diktat» sull’argomento. Per questo il processo per l’assassinio di Giulio Regeni sarebbe (sarà, speriamo) più di un processo, a prescindere perfino dalla sentenza. Diventerebbe, per il fatto stesso di essere celebrato, l’affermazione dello Stato di diritto, da preferire sempre e comunque ad altri modi di maneggiare accuse e tribunali. La speranza, perciò, è che il processo di Roma si faccia. Sia pure senza imputati presenti, ma non senza verità. Quella verità dovuta a Giulio e alla sua straziata famiglia. Quella verità a cui avrebbe diritto Patrick.

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