mercoledì 20 maggio 2020
Il penitenziario frontiera di umanità anche al tempo del coronavirus. Ecco come procedere verso un dignitoso sistema di detenzione
Un carcere al tempo del coronavirus

Un carcere al tempo del coronavirus - Ansa

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Gentile direttore, la paura è diversa dall’angoscia: la prima individua un oggetto rispetto al quale misurare la propria reazione, la seconda non riesce più a individuarne alcuno e diviene totalmente avvolgente, fino a determinare un senso di ineluttabilità. Un nemico invisibile, diffuso, rischia di far evolvere una iniziale paura in angoscia. Questa è, forse, la sensazione vissuta da molti negli ultimi mesi, ma soprattutto da coloro che hanno sommato la nuova situazione a quella precedente che già di per sé determinava ansia e timore.

È la sensazione che si è vissuta in carcere. Accresciuta quando le presenze esterne sono pressoché sparite e lo spazio interno è diventato vuoto e sordo ad altre voci. La pandemia ha investito intere comunità, mettendole a confronto con un nemico sconosciuto. Ma, non ha trovato tutti nella stessa posizione: non siamo tutti uguali, come qualche messaggio pubblicitario ha voluto far credere.

C’è una parte della popolazione, da molti relegata in un angolo, che è particolarmente vulnerabile e lo è stata ancor più in questo periodo: le persone private della libertà. Tra esse, una particolare fisionomia dell’angoscia ha coinvolto le persone detenute negli istituti penitenziari, per adulti o per minori. Ma, se per i secondi si è realizzata – anche in virtù del loro ridotto numero – una modalità di comunicazione che è riuscita a moderare tale sensazione, nei primi essa è esplosa. L’angoscia per il contagio li ha colpiti in maniera potenziata dalla sensazione di essere sottoposti a una “doppia prigionia”: alla privazione della libertà si è aggiunta quella dell’ineluttabilità di un disastro qualora il contagio fosse entrato oltre le mura del carcere. Anche da qui lo svilupparsi di tensioni poi sfociate in violenze non appena si è avuta notizia di un caso di contagio e del contemporaneo decreto che chiudeva le porte.

L’esito drammatico dei tredici morti è stato frettolosamente archiviato, quasi un “danno collaterale”: nessuno si è interessato a quelle vite, neppure ai loro nomi. Il carcere già versava in una situazione che avrebbe dovuto generare paura in chi ne aveva responsabilità e ne generava in chi vi era ospitato. A questa si è aggiunta l’informazione che dettava un insieme di regole di fatto opposte a quelle secondo cui si modulava la quotidianità detentiva. Sentire della necessità di mantenere una distanza di sicurezza tra le persone e di evitare i luoghi affollati e vedere il compagno di stanza a pochi centimetri, condividere i servizi igienici, preparare e consumare i pasti nelle celle, spesso in condizioni igieniche precarie; apprendere che il virus può diventare letale se colpisce persone con un sistema immunitario già indebolito e vedere attorno molti debilitati da un trascorso di vite difficili o con gravi patologie.

Questi gli elementi che hanno inciso sulla già radicata paura e l’hanno fatta evolvere verso l’angoscia dell’ineluttabilità.

Fortunatamente, a oggi, la diffusione interna del contagio è stata contenuta – poco più di 200 persone coinvolte tra i detenuti e altrettante tra il personale – e anche le restrizioni sono state gradualmente accettate, dopo l’introduzione di smartphone e altro. La luce della fine del tunnel sembra delinearsi, anche se si sa già che non sarà l’unica galleria che caratterizzerà il tragitto da compiere.

Forse, si può tornare a essere soltanto “impauriti” e non più “angosciati”: a costruire modalità di vita personale, anche dentro le mura del carcere, che abituino a pensare che sono i nostri comportamenti a contribuire fortemente a superare la sfida. Da soli però non bastano. Occorre che quelle criticità di densità di affollamento, di promiscuità e di scarsa centralità assegnata alla prevenzione nella tutela della salute in carcere, vengano definitivamente risolte. Non solo perché costituiscono la cifra di un dignitoso sistema di detenzione, ma anche perché sono il vero strumento affinché alla pena non si aggiunga altra pena.

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