venerdì 23 luglio 2021
Germania, Francia e Svezia insegnano che non è negando risorse, ma ampliando le opportunità e concedendo sostegni universali e servizi che si rendono le coppie (e le donne) libere di scegliere
Fisco, assegno unico e lavoro femminile: servono aiuti, senza scuse

Giorgio Boato

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Nel nuovo Fisco italiano non sarà previsto un sistema come il "quoziente familiare" alla francese, che divide il reddito complessivo per le parti che compongono il nucleo favorendo chi ha più figli. È uno dei paletti posti dal documento delle commissioni Finanze di Camera e Senato sulla riforma fiscale: il reddito da considerare per le tasse sarà solo quello individuale. La conseguenza è che, a parità di reddito, in Italia non ci sarà alcuna differenza fiscale tra un genitore e un single, tradendo il principio costituzionale dell’equità orizzontale. Attualmente, infatti, il compito di scontare le tasse ai nuclei con prole è affidato alle detrazioni per i famigliari a carico, che tuttavia hanno importi simbolici, e da gennaio 2022 saranno incorporate nel nuovo Assegno unico.

L’unica strada per ovviare a questa distorsione che penalizza fiscalmente la famiglia, soprattutto se numerosa, sarebbe quella di una no tax area legata al numero dei figli, come prevede la formula del "Fattore famiglia". Ma non è questo l’orientamento. Il compito di alleggerire il maggiore peso economico che grava sui nuclei con figli spetterà solo all’Assegno unico e universale. Questa impostazione presenta alcuni limiti: se l’assegno avrà una base comune sostanziosa per tutti, pari ad esempio al costo base del mantenimento dei figli, 2-3.000 euro l’anno, l’equità sarà garantita; se invece il beneficio tenderà a replicare la formula dell’assegno-ponte, con importi che decrescono molto selettivamente in base alla situazione economica della famiglia, fino ad azzerarsi, per il ceto medio con figli la differenza rispetto ai single continuerà ad essere minima o nulla.

Ma perché in Italia è tanto difficile accettare l’idea di sconti fiscali o di benefici universali generosi legati al numero dei componenti il nucleo? Uno degli argomenti messi sul tavolo riguarda la necessità di non scoraggiare il lavoro femminile. Se il vantaggio economico legato ai figli diventa consistente, infatti, il secondo percettore di reddito, in genere la donna, può essere indotto a restare a casa. Tutta la letteratura scientifica in materia dimostra che il rischio è concreto. Ma poiché le ragioni che spingono una madre a non lavorare sono molte e complesse, la questione del lavoro femminile può trasformarsi in un feticcio, una scusa, utile solo a negare sostegni alle famiglie.

In Germania, dove gli assegni familiari sono generosi e uguali per tutti (220 euro al mese), e aumentano di importo dal terzo figlio, il sistema fiscale, che col sistema dello "splitting" favorisce i coniugi, prevede comunque una deduzione di 8.400 euro a figlio, cosicché una famiglia può arrivare a pagare 3.500 l’anno di minori tasse rispetto a un single, per un bambino a carico. In Francia, dove gli assegni sono più bassi rispetto alla Germania (130 al mese, e solo dal secondo figlio), ma anche qui universali, il Fisco interviene ulteriormente col Quoziente abbattendo le aliquote sul reddito familiare anche sotto il 10% in caso di terzo figlio e successivi. In Svezia, dove il welfare è veramente universale sia dal punto di vista dei servizi che delle elargizioni economiche, il fisco resta basato su base individuale, ma tutte le famiglie ottengono un assegno di 1.480 euro l’anno in caso di un figlio, di 3.132 con due figli, di 5.300 per tre figli...

Risultato? Il tasso fecondità in Germania è di 1,6 figli per donna, in Francia di 1,8, in Svezia di 1,7. In Italia di 1,24. Da un punto di vista "natalista", insomma, le politiche fiscali ed economiche generose e universali sembrano funzionare. Ma che dire del tasso di occupazione femminile? In Germania è del 75%, in Francia del 67%, in Svezia dell’80%. In Italia del 52%. La generosità universale verso le famiglie, soprattutto se numerose, insomma, all’estero non scoraggia le donne dal lavorare. Anzi. Il lavoro femminile è invece più raro proprio nei Paesi meno aperti agli aiuti ai genitori, come l’Italia, o come la Grecia, che col 48% di donne al lavoro fa peggio di noi. I motivi per cui una donna non lavora, insomma, sono più legati alla struttura del mercato del lavoro, alla cultura delle imprese, alle abitudini delle persone, alla presenza di misure e servizi che favoriscono la conciliazione, che non ai benefici fiscali ed economici: in Germania i nuclei con 3 figli e oltre sono più del 12%, in Francia e Svezia più del 14%, in Italia poco sopra il 7%.

Le criticità che riguardano il fisco rischiano di riproporsi anche nel confronto in atto sull’Assegno unico. Una delle ipotesi su cui si sta lavorando per la versione definitiva è non calcolare nel reddito complessivo della famiglia una parte delle entrate di chi guadagna meno, proprio per evitare che un importo dell’assegno più basso a fronte di entrate un po’ più alte, inviti le madri a lasciare il lavoro. La soluzione ha un senso, ma appare l’ennesima complicazione burocratica: negli altri Paesi hanno risolto questo problema concedendo a tutti lo stesso assegno, ottenendo più lavoro femminile e più nascite.

Il tema è spinoso. Tassi più alti di lavoro femminile si accompagnano ovunque a tassi di fecondità più alti. Questo significa però che vanno promosse politiche attive per favorire l’occupazione delle donne, estendendo i servizi di cura e agevolando la conciliazione, come è all’estero e come si delinea con il Family Act, non negando sostegni adeguati e universali alle famiglie. L’esperienza dice che i bambini nascono principalmente dove si riescono ad avere due stipendi. Ma se questo non è possibile perché il lavoro manca o è ai confini dello sfruttamento? Si negano aiuti ai figli per spingere i "secondi percettori" ad accettare lavori ai margini della dignità? Nei contesti di minore sviluppo, o di sottosviluppo, come alcune zone del Sud o nelle periferie metropolitane, trasferimenti monetari sproporzionati possono sì bloccare le coppie e i loro figli in quella che gli esperti chiamano la "trappola della povertà". È qui che si deve avviare una seria riflessione sull’importo e la forma dei benefici. Ma non è questo il solo ambito da considerare. Ad avere figli oggi sono soprattutto i nuclei con due redditi, mentre quando le famiglie diventano numerose lo stipendio torna ad essere uno solo: o perché se lo possono permettere – e qui il discorso si amplia ai patrimoni familiari e alle eredità attese – o perché entrambi i genitori entrano in una dimensione strutturale di rinuncia che spesso esprime anche un valore. La presenza o meno di (dis)incentivi di tipo economico è un falso problema: la partita, semmai, si gioca sul lato dei servizi.

In una famiglia numerosa le donne mantengono il lavoro se le coppie hanno redditi molto alti o i nonni sono molto disponibili (o facoltosi), oppure se il contesto offre servizi di cura della prole gratuiti per tutti, congedi lunghi, aziende che non discriminano nella gestione del tempo. È qui che le norme devono intervenire. Dopodiché l’ambito delle scelte personali deve essere sempre rispettato. In Finlandia, dove la coalizione di governo è guidata da cinque donne, si stanno ampliando i già sconfinati congedi parentali, portandoli a 360 giorni a coppia nei primi 2 anni del bambino, ma allo stesso tempo si vuole ridurre il periodo di congedo che i genitori possono cedersi a vicenda: finora il 90% lo prendevano le madri, segno che anche dove il lavoro femminile è un valore diffuso e tutelato, le scelte familiari possono richiedere un supplemento di riflessione.

L’obiettivo dell’Italia, il Paese con il problema demografico più grave al mondo, dovrebbe essere quello di aiutare le coppie ad avere i figli che desiderano. I sostegni funzionano se sono molto semplici, coraggiosi e soprattutto universali. Le possibili criticità non si correggono ponendo limiti agli aiuti, ma offrendo un quadro ancora più ampio di misure capaci di favorire una vera parità e una vera libertà di scelta per tutti.

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