sabato 11 dicembre 2021
Riflessione sul valore dell’esistenza: non si possono creare le condizioni per l’abbandono di tanti malati e delle loro famiglie. È inaccettabile avallare l'idea che la vita possa essere indegna
Un malato terminale in ospedale

Un malato terminale in ospedale - Ansa

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Negli ultimi tempi si dibatte sempre di più sul tema dell’eutanasia, divenuta anche oggetto di richiesta referendaria, e si ripropone la domanda sulla scelta: quando la vita è degna di essere vissuta e continuata? La spinta verso una riflessione sul valore della vita e sul suo significato, sul perché si decida di intraprendere determinati percorsi, arriva ancora una volta da storie umane di grande sofferenza e dolore. È l’osservazione di quei casi che porta ad associare la parola 'fine', dimenticando la parola 'bene'. Come sempre, è una questione di sguardi, di ciò che realmente vogliamo o non vogliamo vedere. Per cosa vale la pena vivere? Qual è il significato della realtà? Che senso ha l’esistenza? Sono le domande inevitabili sulle quali tutti attendiamo una risposta esauriente: qualunque sia la nostra posizione filosofica, politica e teoretica, sono espressione di tutto il nostro sentire. Se trasformiamo le domande in urgenza collettiva vale la pena fare un passo indietro e chiedersi: è necessaria una nuova legge sul fine vita?

Con la sentenza 242 del novembre 2019 la Consulta ha dichiarato incostituzionale l’articolo 580 del Codice penale ma solamente dove non ammette la possibilità di dare aiuto a chi abbia deciso «autonomamente e liberamente» di porre fine alla propria vita. Prima di pronunciarsi, nel 2018, la Corte aveva suggerito al Parlamento di legiferare sulla materia, ma la richiesta era rimasta inascoltata: soltanto il 7 luglio scorso le Commissioni congiunte Affari sociali e Giustizia della Camera hanno approvato il testo base di una proposta di legge «in materia di morte volontaria medicalmente assistita» – licenziato il 9 dicembre dalle Commissioni e atteso il 13 in Aula – che ha l’obiettivo di ricalcare la sentenza della Consulta. Censurando in parte l’articolo 580, i giudici costituzionali avevano limitato la libertà di eutanasia al solo caso (come quello di Dj Fabo) di una persona colpita da patologie irreversibili e da intollerabili sofferenze fisiche e psicologiche, tenuta in vita esclusivamente da trattamenti di sostegno vitale.

La Corte aveva stabilito anche che le condizioni e le modalità di esecuzione del suicidio debbano essere verificate preventivamente da una struttura del Servizio sanitario pubblico e che serva anche un parere favorevole da parte del Comitato etico territoriale. Ma questa non è eutanasia: è una vera forma di eugenetica. Perché «chiunque si trovi in condizioni di estrema sofferenza», come dice la Consulta, va aiutato non a eliminare la propria vita ma a gestire il dolore e a superare angoscia e disperazione. In piena salute nessuno di noi vorrebbe immaginare una vita condizionata da ma-lattie, o dipendenza da altri negli atti quotidiani. Quando si è colpiti da una ma-lattia o una grave disabilità, qualunque essa sia, a prima vista pare impossibile se non insensato coniugarla con il concetto di salute. Ancora di più se si tratta di malattie rare, poco conosciute, e di cui, allo stato attuale, non si conoscono terapie efficaci perché si possa guarire.

A volte, però, può succedere che una malattia o una grave disabilità che mortifica e limita il corpo, anche in maniera molto evidente, possa rappresentare una vera e propria medicina per chi deve forzatamente convivere con essa senza la possibilità di alternative. Perché la malattia può davvero disegnare, nel bene e nel male, una linea incancellabile nel percorso di vita di una persona. O, ancora meglio, edificare colonne d’Ercole superate le quali ci è impossibile tornare indietro ma, se si vuole, ci è ancora consentito guardare avanti. Ed è proprio questo il nocciolo della questione. Al livello più profondo di sé, la consapevolezza della realtà aiuta a rendersi conto che nella vita non bisogna dare nulla per scontato, neppure bere un bicchiere d’acqua senza soffocare. A volte siamo così concentrati su noi stessi che non ci accorgiamo della bellezza delle persone e delle cose che abbiamo intorno da anni, magari da sempre. Così, quando è la malattia – o l’imprevisto, come lo definisco io – a fermarti bruscamente può accadere che la propria scala di valori cambi. E ci si rende conto che quelli che noi fino a quel momento consideravamo i valori più importanti invece non erano proprio così meritevoli dei primi posti.


Il dolore e la sofferenza
non sono né buoni né desiderabili,
ma non per questo sono senza significato:
ed è qui che l’impegno della medicina
e della scienza deve intervenire

In tempi nei quali si parla sempre più, con scarsa chiarezza, di diritto alla morte, del principio di autodeterminazione, di autonomia del paziente, si deve lavorare concretamente sul riconoscimento della dignità dell’esistenza di ogni essere umano, che deve essere il punto di partenza e di riferimento di una società che difende il valore dell’uguaglianza e si impegna affinché la malattia e la disabilità non diventino criteri di discriminazione sociale e di emarginazione. Oggi abbiamo a disposizione tutti gli strumenti necessari.

Il dolore e la sofferenza (fisica e psicologica), in quanto tali, non sono né buoni né desiderabili, ma non per questo sono senza significato: ed è qui che l’impegno della medicina e della scienza deve concretamente intervenire per eliminare o alleviare il dolore delle persone malate o con disabilità e per migliorare la loro qualità di vita evitando ogni forma di accanimento terapeutico, con la corretta e concreta applicazione della legge 38 del 2010 sulle cure palliative e la terapia del dolore. Questo è un compito prezioso che conferma il senso della professione medica, non esaurito dall’eliminazione del danno biologico. La medicina, i servizi sociosanitari e, più in generale, la società forniscono quotidianamente risposte ai differenti problemi posti dal dolore e dalla sofferenza: risposte che devono essere potenziate e che sono l’esplicita negazione dell’eutanasia, del suicidio assistito e di ogni forma di abbandono terapeutico e di cessazione dei supporti vitali.

Non si possono creare le condizioni per l’abbandono di tanti malati e delle loro famiglie. È inaccettabile avallare l’idea che alcune condizioni di salute rendano indegna la vita e trasformino il malato o la persona con disabilità in un peso sociale. Si tratta di un’offesa per tutti, ma in particolar modo per chi – come me – vive una condizione di malattia: questa idea, infatti, aumenta la solitudine dei malati e delle loro famiglie, introduce nelle persone più fragili il dubbio di poter essere vittime di un programmato disinteresse da parte della società e favorisce decisioni rinunciatarie. Ciò che manca è una reale presa in carico del malato, la corretta informazione sulla malattia e sulle sue problematiche, la comunicazione personalizzata con la condivisione familiare per poter spianare il percorso della consapevolezza facilitando e applicando concretamente le decisioni condivise durante la pro- gressione della malattia. Non si può chiedere a nessuno di uccidere.


Scegliere la morte è la vittoria
di una concezione antropologica
individualista e nichilista
in cui non trovano spazio né la speranza
né le relazioni interpersonali


Una civiltà non si può costruire su un simile presupposto falso. Perché l’amore vero non uccide e non vuole la morte. È necessario chiedersi con molta sincerità se proprio dalla mancanza sempre più evidente di presa in carico qualificata, di supporto adeguato alla famiglia, di reti di servizi sociali e sanitari organizzati, di solidarietà, di coinvolgimento e sensibilità da parte dell’opinione pubblica scaturiscano quelle condizioni di sofferenza e di abbandono a causa delle quali alcuni malati chiedono di porre fine alla propria vita.

Nel nostro Paese le istituzioni e gli operatori sanitari dovrebbero rinsaldare la certezza che ognuno riceverà trattamenti, cure e sostegni adeguati. Si deve garantire al malato, alla persona con disabilità e alla sua famiglia ogni possibile, proporzionata e adeguata forma di trattamento, cura e sostegno. La Costituzione e tutte le leggi vigenti, il Codice di deontologia medica, la Convenzione sui Diritti dell’uomo e quella sui Diritti delle persone con disabilità affermano la garanzia per tutti di avere accesso alle cure dall’inizio alla fine naturale del percorso di vita. La malattia non porta via le emozioni, i sentimenti, la possibilità di comprendere che l’essere conta più del fare. Può sembrare paradossale, ma un corpo nudo, spogliato della sua esuberanza, mortificato nella sua esteriorità, fa brillare maggiormente l’anima, ovvero il luogo in cui sono presenti le chiavi che possono aprire, in qualunque momento, la via per completare nel modo migliore il proprio percorso di vita.

Scegliere la morte è la sconfitta dell’umano, la vittoria di una concezione antropologica individualista e nichilista in cui non trovano più spazio né la speranza né le relazioni interpersonali. Si deve avere il coraggio di una lettura consapevole della realtà al suo livello più profondo, là dove diventa io e prende coscienza di sé.

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