domenica 4 maggio 2014
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Spero che più d’uno, oggi e nei prossimi giorni, si fermi a riflettere con sguardo sgombro e libero sullo squarcio nell’anima di Giulio Andreotti che ci viene inaspettatamente offerto dalla generosità dei suoi figli e degli amici più cari e che pubblichiamo oggi a pagina 25. È, infatti, impressionante lo scarto che emerge tra certa grave e greve narrazione pubblica sulla "statura" di un uomo politico che – comunque la si pensi – resterà nella storia come uno dei più importanti dell’Italia novecentesca e repubblicana e dell’Europa comunitaria e il profilo umano e cristiano delineato dalle brevi lettere «post-mortem» che Andreotti vergò in fasi diverse della sua maturità e della sua vecchiaia. Parole scritte senza scampo, come al limitare della propria esistenza, in faccia alle persone amate e, inevitabilmente, scrutandosi dentro e guardando in alto.

Mi hanno toccato e, anche, commosso. Mi hanno interrogato. Sono frasi sobrie e di accento familiare, asciutte come alcune delle fulminanti battute che contribuirono al mito del "divo Giulio" e congiurarono alla sua prematura (fa quasi effetto scriverlo di una personalità che governò per quasi mezzo secolo il proprio Paese) uscita di scena dalle cosiddette "stanze dei bottoni".Sono stato cronista politico per molti anni e per diverse testate, questa compresa. Testimone per mestiere (e per passione civile) di fatti, eventi, svolte, rivolgimenti, ricominciamenti, delusioni, veri o presunti nuovi inizi. E se dovessi dire, tra le tante cose che ho avuto la ventura di raccontare e commentare, di aver apprezzato sempre e tutto delle scelte, delle cordate e delle operazioni politiche di Giulio Andreotti, direi una cosa non vera. Qualche lettore, anche di questo giornale, forse lo ricorderà.

Tuttavia, anno dopo anno, ho imparato a stimare nel «presidente» (Andreotti lo era, quasi per antonomasia) non soltanto la straordinaria lucidità nel leggere e interpretare avvenimenti e ruoli sulla scena internazionale, ma anche alcuni di quegli aspetti privati e persino personali, di quella discreta e invincibile dimensione di fedeltà sacramentale e di carità cristiana nella quotidianità, che sono tipicamente suoi eppure lo accomunano alla generazione di politici cattolici (a lui amici, e anche avversari) che costruì e preservò la nostra democrazia assieme a compagni di strada di diversa cultura politica e stessa onesta intenzione.

Tratti personali e spirituali che non sono "memorie" a difesa, ma lumi che impediscono di rassegnarsi alla caricatura infame dell’Andreotti-Belzebù in combutta con il lato oscuro di tutti i poteri.Si dice spesso, a proposito di personaggi grandi e controversi, che ci sono verità storiche e verità processuali che li riguardano. Di Giulio Andreotti questo è stato detto, pro e contro, più volte. C’è però anche una verità interiore, quella che si riserva a se stessi e, a volte, alle persone più care.

Una verità che quasi mai emerge. Stavolta è avvenuto. Ed è una verità buona e utile. Non una medaglia, né un’assoluzione. Ma qualcosa di più profondo. Una verità scomoda, come tutte le verità. Ingombrante pietra di paragone per quanti oggi, da cristiani, si misurano con il servizio nella politica, che richiede e, anzi, imporrebbe risorse non contemplate dalle correnti misure del successo.

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