venerdì 9 giugno 2017
La richiesta del Vangelo ad adoperarsi per la liberazione dei calpestati per don Lorenzo era un aspetto qualificante dell’essere cristiano
Don Milani, amore ai poveri e l'obbedienza responsabile
COMMENTA E CONDIVIDI

Come allievo e come figlio ho apprezzato molto la decisione di papa Francesco di salire a Barbiana il prossimo 20 giugno. È il riconoscimento che don Lorenzo Milani aveva più volte richiesto mentre era in vita. In una lettera inviata il 6 marzo 1964 al suo vescovo Ermenegildo Florit, don Lorenzo scriveva: «Se lei non mi onora oggi con qualsiasi atto solenne, tutto il mio apostolato apparirà come un fatto privato, qualcosa di simile all’opera di un pastore protestante».

Dunque il riconoscimento don Lorenzo non lo voleva per sé, ma per la Chiesa, per salvarla dal giudizio dei poveri. Sapeva che i suoi parrocchiani non erano ciechi, che giudicavano con durezza una Chiesa che esilia chi dice la verità e serve i poveri senza compromessi come richiede il Vangelo. La giudicavano e la condannavano. Per tradimento. Dopo di che giravano le spalle non solo a lei, ma a Dio stesso. Per questo don Lorenzo voleva gli «onori» del suo vescovo: per evitare un disastro annunciato. I l Priore di Barbiana ci è stato maestro su molti piani: da quello educativo a quello morale, da quello religioso a quello politico.

Aspetti apparentemente disgiunti, in realtà intimamente connessi fra loro all’interno di una medesima visione e di un medesimo pensiero. Don Lorenzo aveva sempre una motivazione per ogni singolo gesto che non vedeva mai fine a se stesso, ma sempre inserito in una logica di consequenzialità. Per questo non può essere analizzato a pezzettini. Estrapolare una singola affermazione o un singolo comportamento senza tenere conto del prima e del dopo sarebbe un’ulteriore offesa a lui e un oltraggio alla verità.

Fra le idee forti che hanno orientato la vita del Priore di Barbiana, un paio meritano una particolare menzione non solo perché sono alla base del suo rapporto tempestoso con le autorità ecclesiastiche, ma perché rappresentano tutt’ora proposte molto attuali. La prima è la scelta preferenziale per i poveri, gli oppressi, gli emarginati. La richiesta del Vangelo ad adoperarsi per la liberazione dei calpestati, per don Lorenzo non era una mera esortazione. Era un aspetto qualificante dell’essere cristiano, per cui ne fece un caposaldo del proprio apostolato.

Non come semplice difesa di parte, ma come totale scelta di amore. Per don Lorenzo, gli oppressi non erano un’astratta categoria sociale. Erano persone di cui si innamorava follemente, una per una. Ognuna di loro aveva un volto, un nome, una storia. Di ognuna conosceva sofferenze, desideri, passioni. Per ognuna ardeva dal desiderio di vederla godere della dignità piena, quella fatta non solo di casa, lavoro, salario, ma soprattutto di capacità di farsi le proprie ragioni, di pensare con la propria testa, di partecipare alla pari con gli altri alla costruzione delle decisioni comuni.

Sapeva che per ottenere tutto questo ci vuole istruzione e fece scuola. Ma sapeva che ci vogliono anche regole, leggi, controlli, per ridurre lo strapotere di imprese, banche, proprietari terrieri e riequilibrare i rapporti di forza con lavoratori, disoccupati, precari. Un risultato possibile, ma solo se nella comunità si forma un coro unanime che va nella stessa direzione. La voce della Chiesa purtroppo non c’era e grande fu l’amarezza di don Lorenzo nel constatare che la Chiesa aveva scelto di stare dalla parte di chi abusava piuttosto che degli abusati. Ciò nonostante non si dette per vinto. L’affetto per i suoi parrocchiani e l’adesione al Vangelo gli diedero la forza per anteporre la coerenza al quieto vivere e mettendosi contro tutti denunciò il sodalizio esistente fra Chiesa, politica e potere economico. Su questo punto non è ancora stata detta una parola chiarificatrice, tanto più necessaria se si considera che fu il motivo per cui don Lorenzo venne esiliato a Barbiana.

L'aspetto più crudele dell’esilio non è l’isolamento, ma la separazione dalle persone care. Quando don Lorenzo venne mandato a Barbiana nel 1954, aveva trascorso sette anni a San Donato a Calenzano, un tempo sufficientemente lungo per creare rapporti profondi con centinaia di parrocchiani. Nel lasciarli, provò così tanto dolore che giurò a se stesso di non voler più ripetere quell’esperienza così straziante. Il giorno dopo il suo arrivo a Barbiana si recò in Comune per comprare un posto nel cimitero della frazione.

E in una lettera a padre Santilli del 10 ottobre 1958 scrive: «Se non sarò giudicato capace di fare il Parroco di Barbiana, vorrà a dire che Dio mi chiama a lasciare l’apostolato e cercare una via di maggior raccoglimento. Questo è il patto che abbiamo fatto fra me e Lui». In realtà il parroco lo fece fino in fondo nel pieno delle sue funzioni come si conviene a chi applica la formula dell’obbedienza responsabile, un altro caposaldo della sua condotta. I n una lezione che venne registrata e che è stata pubblicata nel libro di Giorgio Pecorini Don Milani chi era costui?, il Priore cita la grazia di stato per sostenere che nessuno, meglio di chi porta avanti l’incarico, è in grado di gestire i problemi legati all’incarico stesso.

Per cui, cosa fare o non fare, cosa dire o non dire nell’ambito della propria parrocchia, lo deve decidere autonomamente ogni parroco senza chiedere autorizzazione preventiva al vescovo. Il che non significa cancellazione dell’obbligo di obbedienza. L’obbligo permane, ma nel rispetto delle responsabilità di ciascuno. Il compito del vescovo, spiega Milani, è di tipo ispettivo, per cui il parroco opera e il vescovo vigila. E se nel corso dell’ispezione emergono comportamenti errati, il vescovo ordina e il parroco obbedisce. In conclusione c’è un prima che in nome della responsabilità esige autonomia, e c’è un dopo che in nome dell’ortodossia esige obbedienza. Un principio che il Priore di Barbiana ha sempre seguito e che propone come regola di comportamento per tutti i preti: «Con questo sistema di distinguere l’'obbedienza prima' dall’'obbedienza dopo', si può dare ai giovani preti una lezione di 'ribellione obbedientissima'.

Perché colui il quale segue a volta a volta soltanto la sua coscienza, con la migliore delle intenzioni, avendo già progettato fino in fondo un’assoluta obbedienza in caso di stangata, è perfettamente obbediente, è perfettamente sottoposto ai vescovi e non blocca il progresso teologico, pastorale, sociale, politico, del suo insegnamento». Anche su questo sarà bello ascoltare una parola di papa Francesco.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI