Domande da non eludere per una scelta di dignità
venerdì 4 ottobre 2019

Caro direttore,
la recente sentenza della Corte Costituzionale in merito Call’impunibilità, a certe condizioni, dell’aiuto al suicidio di chi sia già determinato a togliersi la vita, pur in attesa delle motivazioni, richiede a tutti, credenti e non credenti, una profonda riflessione che ci consenta di uscire dai singoli casi, pur senza perderli di vista, per mettere in luce quali conseguenze questa decisione ha sulla nostra cultura e sulla nostra visione dell’esistenza. Non si tratta infatti di una questione marginale, ma di un cardine fondamentale della concezione di sé, del mondo e del rapporto con gli altri. La vita è un dono o è invece qualcosa di cui noi possiamo liberamente e arbitrariamente disporre? Non possiamo evitare questa domanda guardando a noi stessi, ai nostri figli, ai nostri amici, alle persone che ci sono più care.

La vita è un dono anche quando essa è segnata dalla malattia, dalla povertà, dall’indigenza, dalle terribili conseguenze che possono avere sugli uomini e sulle donne di ogni età le gravi patologie, gli incidenti? La vita continua a essere un dono anche quando essa si svolge in condizioni drammatiche, che sembrano contraddire radicalmente tale concezione? La vita è un dono anche quando in noi sembrano spente le possibilità di relazione con gli altri, quando il dolore sembra attanagliare tutto il nostro corpo, quando sembriamo diventare un peso per coloro che più ci amano? La vita è un dono quando, in base ai criteri utilitaristici ed edonisti che dominano il nostro tempo, sembriamo essere diventati 'inutili', quando occupiamo un posto letto che potrebbe essere ambito da altri, quando l’uomo è considerato essere unicamente un numero dal servizio sanitario? Non possiamo eludere tutte queste domande, che ci obbligano a considerare quale sia il punto di vista da cui guardiamo il bene e il male, e la dignità della persona.

Nel sommo rispetto verso coloro che soffrono, e che potremmo domani essere noi, verso i loro parenti e verso le necessità di tutti – rispetto che ci obbliga a non giudicare mai l’interiorità della coscienza di ciascuno – non possiamo allontanarci dal principio che ogni vita umana ha una dignità che non spetta a noi spegnere in nessun modo e per nessuna ragione. E ciò è vero non solamente sulla base di considerazioni che derivano dalla fede di chi crede, ma anche sulla base della ragione. Tutto ciò è affermato chiaramente anche dalla nostra Costituzione repubblicana all’art. 2 e dall’art. 3 della 'Dichiarazione dei diritti dell’uomo' del 1948, firmata anche dal nostro Paese. È necessario ribadire come tutto ciò sia sostenuto e accompagnato da una decisa avversione all’accanimento terapeutico. Non ci sono ragioni per prolungare indefinitamente l’esistenza, quando essa va verso la sua naturale conclusione. Questo è vero soprattutto per chi crede in una vita eterna oltre la vita naturale.

Lo scacco della morte, così orribile e penoso per ciascuno di noi, non è uno scacco definitivo, ma il passaggio, pur doloroso e ripugnante, verso una vita migliore. Nessun medico, la cui professione è sempre un impegno di cura nei limiti delle umane possibilità, può arrogarsi il diritto né tanto meno ricevere per legge il dovere di contribuire attivamente a interrompere il corso della vita. Nessun famigliare, pur premuto da sentimenti di pena o di immensa fatica, può premere il bottone o azionare la siringa per determinare la morte di un suo caro. Occorre intraprendere con decisione un’altra strada: non lasciare soli i parenti, accompagnarli, sostenerli, aumentare in modo rilevante e significativo i contributi dello Stato per le strutture, pubbliche e private, predisposte ad accogliere chi necessita di terapie del dolore, di cure palliative e di ospitalità nelle fasi terminali della vita. Sono tutte situazioni che vanno affrontate con grande rispetto e con profonda partecipazione.

Chi può stabilire quale sia la soglia del dolore insopportabile, psichico o fisico? Non si apre così la porta alla nascita di una cultura nuova e malvagia, per la quale una malattia mentale o un’altra patologia troverebbero nel suicidio assistito la strada normale della propria risoluzione? Papa Francesco si è pronunciato a più riprese in modo molto chiaro e con parole gravi su tutte queste tematiche. Il 20 settembre scorso ha affermato: «Si può e si deve respingere la tentazione – indotta anche da mutamenti legislativi – di usare la medicina per assecondare una possibile volontà di morte del malato, fornendo assistenza al suicidio o causandone direttamente la morte con l’eutanasia ».

Queste espressioni sono state riprese dalla Nota della Conferenza episcopale italiana del 26 settembre. Non devono essere mai questioni di bilancio dello Stato o delle strutture sanitarie a favorire una cultura di morte. La decisione del paziente, di cui parla la sentenza della Corte costituzionale, deve essere aiutata a sapere che esistono possibilità di affronto della sua situazione di dolore, che esistono strade di accompagnamento. Il più delle volte è proprio la paura della solitudine e della sofferenza 'inutile' a determinare la disperazione che porta verso il desiderio di morte. Troviamo qui grandi analogie con la realtà dell’aborto, che pur presenta ovviamente grandi differenze.

La donna è spesso portata con immenso dolore e sensi di colpa verso la scelta dell’aborto perché non le sono state offerte altre strade, non ha avuto adeguati consigli, accompagnamenti e proposte di accoglienza. Come quarant’anni fa, ci troviamo non tanto di fronte a una divisione fra credenti e non credenti, quanto piuttosto a una di quelle scelte che determinano per decenni, e forse per secoli, lo sguardo che abbiamo sulla vita e sulla morte, e quindi sul futuro della nostra umanità. Giustamente la Nota della Cei dice: «La preoccupazione maggiore [del momento presente] è relativa soprattutto alla spinta culturale implicita che può derivarne per i soggetti sofferenti a ritenere che chiedere di porre fine alla propria esistenza sia una scelta di dignità». Diritto alla vita, accudimento dell’anziano e del malato, rispetto del creato: sono tre capitoli di un unico libro.

Vescovo di Reggio Emilia-Guastalla

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