giovedì 5 settembre 2013
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L’insistenza, il coraggio, l’energia con cui il Papa ha preso in mano in questi giorni l’emergenza Siria, ci dice che il tema della pace, in questo nostro tempo incerto, è una scommessa troppo importante per essere lasciata alla esclusiva competenza di qualche potere o della sola politica. Infatti sembra che il massimo della forza confini strettamente con l’impotenza a trovare soluzioni e la paralisi delle diplomazie.Certo, la pace ha anche a che fare con la politica, la diplomazia, il negoziato, gli equilibri e gli interessi internazionali da preservare, nel rispetto delle parti e nella giustizia. La pace non è una chimera. Si può leggere in questo senso la decisione della Segreteria di Stato vaticana di convocare per oggi il corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede per rafforzare il consenso internazionale intorno alla iniziativa della Chiesa cattolica e reiterare l’invito a cercare la pace attraverso il solo dialogo. Perché «guerra chiama guerra, violenza chiama violenza!», come ha detto con forza papa Francesco all’Angelus di domenica. Eppure, di fronte all’emergenza siriana, e a quella di altri Paesi in guerra, non c’è soltanto il lavoro della diplomazia da mettere in campo con più convinzione. Francesco ha detto che «c’è un giudizio di Dio e anche un giudizio della storia sulle nostre azioni a cui non si può sfuggire», e in un tweet ha ripetuto: «Vogliamo che in questa nostra società, dilaniata da divisioni e da conflitti, scoppi la pace». Ciò significa che la pace è compito in primo luogo degli uomini e delle donne di questo mondo, e dunque di noi tutti, che siamo chiamati a farci carico del dolore e del sangue di tante vittime inermi, e in loro nome dobbiamo farci eco del grido: «Mai più la guerra».D’altra parte, la lezione della crisi siriana mostra ormai l’inadeguatezza, anzi la vera e propria impotenza di ogni soluzione basata sull’uso della forza. Ce lo dice con l’immane tragedia di più di centomila morti, con la disperazione dei quattro milioni di sfollati e dei due milioni di profughi che si accalcano oltre il confine siriano-libanese; ce lo fa capire con la minaccia del contagio delle tensioni, dell’instabilità e dei conflitti che potrebbero dilagare in tutto il Medio Oriente e oltre. Il ricordo dei guasti irrimediabili provocati – anche al di là delle intenzioni – dal tentativo di risolvere con la forza le crisi internazionali è troppo recente per non suonare come un ammonimento a tutti i protagonisti della scena mondiale. In Siria, come in altre situazioni di conflitto, il dialogo, le pressioni e l’impegno negoziale non sono sintomi di debolezza o di cedimento, ma dimostrazioni di un’audacia politica che chiede di essere finalmente messa alla prova.Nel conflitto siriano, l’uso di armi proibite dalle convenzioni internazionali – le famigerate armi chimiche – sembra aver consumato ogni speranza; eppure si è dimostrato ancora una volta che la violenza non porta alla pacificazione, perché nessuno è in grado di vincere sul terreno. La guerra ha ormai assunto un nuovo volto. Una soluzione militare rischia di acuire un conflitto crudele che tiene in ostaggio un intero popolo e che minaccia di degenerare in un conflitto generale, ingovernabile.È confortante il vasto consenso che si è spontaneamente espresso attorno all’iniziativa di Francesco. Ci si augura che riprenda, a cuore libero e occhi sgombri, un grande movimento di pace. Francesco è il papa che ha inaugurato il suo pontificato invitando l’umanità intera ad aprire l’orizzonte della speranza. Nel buio di questa guerra,  il suo Angelus domenicale è stato una luce di speranza. La parola più efficace, appare ai credenti, quella della preghiera, che assieme al digiuno, segnerà la giornata di sabato e non solo. L’adesione di tanti capi religiosi e di tante comunità, di politici onesti che hanno misurato l’impotenza delle soluzioni più tradizionali e scontate, di uomini e donne di buona volontà, manifesta la voce di un’umanità che è al tempo stesso angosciata ma non rassegnata. E che crede nella preghiera come l’arma umile e più efficace per vincere il male. Una voce che chiede di risuonare anche al G20 e nei luoghi dove si può decidere, o no, di imbarcarsi in «un’avventura senza ritorno».
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