Democrazia, la via maestra
sabato 31 agosto 2019

C’è un clima di attesa e di speranza, ma anche di pesante ironia e persino di indignazione degna di miglior causa che circonda il tentativo in corso di dar vita a una nuova maggioranza fra il Movimento 5 Stelle e le forze di centrosinistra. Le considerazioni di buon diritto e di buon senso circa il funzionamento della democrazia parlamentare e la patologia di un eventuale ritorno alle urne in novembre – dopo appena un anno e mezzo, e nel pieno di una sessione di bilancio – a troppi concittadini non bastano per riportare la discussione su un binario di sano realismo. E se neanche il richiamo alla Costituzione e alle oggettive regole dell’aritmetica bastano più, vuol proprio dire che il malessere è grave e va oltre la già imperdonabile scarsa conoscenza del funzionamento delle istituzioni. Bisogna tornare più indietro ancora, evidentemente. Occorre andare alle ragioni che spinsero a questa soluzione: la tragedia del Ventennio fascista che aveva portato una minoranza parlamentare ad assumere "pieni poteri" indusse i nostri padri costituenti a optare per una soluzione istituzionale che conferisce al Parlamento e al capo dello Stato il compito di favorire la creazione di una maggioranza di governo rifuggendo da scorciatoie quali l’elezione diretta del presidente del Consiglio o del capo dello Stato.

Naturalmente non c’è una formula sola per dar vita a una solida democrazia, e non c’è democrazia in grado di reggere davvero, a lungo, senza il riconoscimento di alcune regole condivise e di alcuni valori fondanti. Tuttavia, mentre l’elezione diretta può mascherare il malessere diffuso di un popolo, rifugiandosi nell’uomo forte del momento chiamato a comporre le contese, una democrazia parlamentare non sta in piedi e si avvita su se stessa se si smarrisce il patto sociale che è alla base.

Il nostro dibattito parlamentare sconta la patologia di campagne elettorali condotte, da parte di ciascuna forza politica, nella demonizzazione dell’altro, di tutti gli altri, e nella proposta di ricette salvifiche fiscali, previdenziali, sociali quasi sempre irrealistiche, come se la realtà non ci fosse. Ma se le rivoluzioni si realizzano attraverso le strade eversive che abbiamo dolorosamente conosciuto, i cambiamenti si realizzano nella "fatica" della democrazia, e attraverso un’operazione molto complicata, ma nobilissima, che consiste nel mettere il benessere del Paese al di sopra di tutto, persino al di sopra della ricerca di consenso. Cosicché in una buona democrazia parlamentare il tempo va dedicato a convincere gli altri, più che ad alimentare la propria macchina elettorale. La Lega salviniana è finita fuori da questa dinamica non per una congiura di Palazzo ma perché ha fatto poco su temi concreti che aveva indicato fra le sue priorità, come la famiglia – lo ha ammesso con grande correttezza Giancarlo Giorgetti a Rimini – per inseguire temi e battaglie divisive "capitano contro capitano" in grado di regalare effimeri consensi soffiando sul fuoco delle paure, ma che non costruiscono una progettualità politica, anzi la rendono impossibile. C’è da augurarsi e da augurare al nostro Paese che i nuovi alleati di governo facciano di più e di meglio, senza innescare pericolose derive su altri punti sensibili.

Siamo in un tempo politico "neoproporzionale", aperto dalla bocciatura referendaria della riforma maggioritaria "spinta" nella scorsa legislatura da Matteo Renzi. Ma qualcuno fa ancora finta che non sia così. Per questo ci ritroviamo a questo secondo, difficile e disorientante passaggio nell’arco di diciotto mesi. Perché sono stati disprezzati e intaccati non solo realtà politica ed equilibrio istituzionale, ma anche quel senso del bene comune – che nelle parole di Sergio Mattarella diventa richiamo, costante e persino accorante, allo «spirito di comunità» – senza il quale una democrazia parlamentare non può reggere.

L’alleanza precedente ha fallito perché il 'contratto di governo' più che un compromesso (cum promittere, promettere insieme) è diventato un promettere un tanto ciascuno al proprio elettorato. Altro che 'inciucio', espressione dialettale che vuole dire, in fondo, 'parlare'. Nel parlarsi, invece di parlare solo attraverso il proprio smartphone e solo ai propri seguaci, M5s e Pd stanno facendo proprio quello che un Parlamento (lo dice la parola stessa) dovrebbe sempre fare.

L’esito non è scontato, il richiamo a una procedura (la consultazione della piattaforma Rousseau) che umilia la libera scelta dei parlamentari sancita in Costituzione, è il segno di un passaggio difficilissimo ancora in corso. Il parallelismo di Pierluigi Castagnetti con il governo Andreotti del 1976 c’è tutto. Anche allora, in quel caso con la formula dell’astensione, una forza tendenzialmente rivoluzionaria come il Partito comunista, fece i conti per la prima volta con la fatica della democrazia di governo. In fondo, per una forza di cambiamento radicale – la storia più recente lo insegna – è l’unica alternativa possibile, questa, all’eversione. Ma allora a fare da garante c’era la forza di grandi partiti popolari con saldi riferimenti ideali, che oggi manca. Stavolta, quindi, ci sarà bisogno di tutta l’abilità e la lungimiranza del presidente incaricato per condurre in porto un’operazione in qualche modo storica. Che riporta al centro la democrazia parlamentare, ossia il Parlamento, ossia il bene comune. C’è l’occasione per far capire agli italiani che questa è la via maestra, la strada giusta. E non va sprecata.

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