sabato 10 agosto 2019
Percorsi obbligati dalla Costituzione. Possibile mandato esplorativo per un governo che porti alle urne. Il nodo di un candidato premier, con uno «stile» particolare, al ministero dell'Interno
Telecamere delle televisioni davanti al Quirinale per la crisi del governo Conte (Ansa)

Telecamere delle televisioni davanti al Quirinale per la crisi del governo Conte (Ansa)

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La crisi del governo gialloverde si sta aprendo con modalità inedite, proprio come la sua formazione (i famosi 88 giorni fra il 4 marzo e il 1° giugno 2018) seguì forme per vari aspetti inusuali.
Anzitutto – negli auspici della Lega, almeno a parole, e in apparente sintonia non solo con Fdi, ma soprattutto con vasti settori del partito di maggioranza relativa M5s, così come del Pd e di Forza Italia – essa nasce non come semplice crisi di governo, ma come crisi volta a porre fine alla legislatura, ridando la parola agli elettori in ottobre. Certo proprio la travagliata formazione del governo Conte dovrebbe dimostrare come una alternativa all’attuale coalizione, stante la composizione di questo Parlamento, sia oltremodo problematica, anche considerando che la soluzione di un Governo "tecnico" sottostà comunque alle forche caudine di un voto di fiducia parlamentare, che al momento sembra improbabile.

Eppure il ricorso alle urne non può essere automatico: l’interpretazione prevalente del potere di scioglimento delle Camere – che l’art. 88 della Costituzione conferisce al presidente della Repubblica, con la controfirma del presidente del Consiglio – è infatti nel senso che il Presidente possa sciogliere le Camere prima della fine della legislatura solo una volta che sia constatata l’impossibilità di formare un nuovo Governo. E se questa regola, formatasi nella Repubblica dei partiti (in cui gli Esecutivi nascevano sulla base di accordi tra le forze politiche dopo le elezioni), è stata mantenuta anche negli anni del maggioritario (1994-2011), quando pure i governi vedevano la luce sulla base di una investitura popolare di coalizioni formate prima del voto, con la conseguenza che non sarebbe stato illogico equiparare la fine della coalizione con quella della legislatura, non ci sono ragioni per non applicarla oggi: il governo giallo-verde, infatti, non è nato sulla base di un accordo consacrato dal voto popolare, dato che Lega e 5stelle si sono presentati in schieramenti diversi al voto del 4 marzo 2018 e addirittura la Lega vi si è presentata in alleanza con le altre forze di centrodestra.

Per questi motivi, non può esservi nessun automatismo fra il ritiro della Lega dal Governo (che, fra l’altro, non ha seguito le forme in cui questo atto è stato posto in essere in passato, vale a dire le dimissioni dei ministri leghisti dal governo Conte) e le nuove elezioni. Ciò che è certo è che la crisi è aperta. Qui, tuttavia, si è innestata una scelta del presidente del Consiglio, già preannunciata negli scorsi mesi: la parlamentarizzazione della crisi. In nome della "trasparenza" (ma stavolta nella sede propria e non tornando ai tempi delle grottesche consultazioni in streaming, nella crisi del 2013), il premier intende infatti andare davanti a una delle due Camere e rendere esplicite le ragioni della rottura del patto Lega-M5s. Un atto di cui ci sono pochi precedenti. La "parlamentarizzazione" delle crisi è infatti uno slogan degli anni Ottanta: fu Sandro Pertini a volerla, per rendere pubbliche le ragioni delle continue dissoluzioni dei governi rissosi di quegli anni. Ma si trattava quasi sempre di parlamentarizzazioni imposte dal Quirinale a Governi che si erano già dimessi quando un partito si era ritirato dalla coalizione. Qui siamo invece davanti a una parlamentarizzazione della crisi voluta dal presidente del Consiglio, a difesa di sé stesso e del suo partito (i 5stelle), in modo da "far pagare" a chi "rompe" (la Lega) il costo politico della rottura: dunque una parlamentarizzazione non arbitrale (come quella presidenziale), ma di parte, che ricorda un po’ quella con cui Silvio Berlusconi tentò di resistere alla sfiducia imposta da Umberto Bossi al suo primo Governo nel dicembre del 1994.
Che cosa potrà avvenire dopo che la crisi sarà stata formalizzata in Parlamento la prossima settimana (o in quella successiva), contravvenendo per la seconda volta (dopo la crisi nel passaggio dallo Spadolini 1 allo Spadolini 2 nel 1982) alla sacra regola per cui "agosto scaccia le crisi e non le apre"?

A quel punto vi sarebbero due alternative: il presidente Sergio Mattarella – cui spetta la decisione sullo scioglimento delle Camere – dovrà scegliere se conferire un incarico per la formazione di un nuovo governo (o un mandato esplorativo) o se sciogliere immediatamente le Camere, andando alle elezioni con l’esecutivo attuale. La prima ipotesi, a sua volta, potrebbe svolgere due funzioni diverse: l’incarico potrebbe essere finalizzato al fallimento, certificando semplicemente l’assenza di una maggioranza parlamentare alternativa, come i mandati esplorativi conferiti a Morlino nel 1983 e a Marini nel 2008. Ma questa funzione potrebbe essere inutile, in presenza della parlamentarizzazione preventiva, che potrebbe già certificare, oltre alla rottura della maggioranza attuale, anche l’assenza di alternative. Tuttavia, un incarico per la formazione di un nuovo Governo potrebbe avere un’altra funzione: quella di far nascere un esecutivo elettorale, destinato ad andare in Parlamento per la fiducia iniziale con la certezza di non ottenerla e di portare il Paese al voto in ottobre. È un po’ l’ipotesi Cottarelli, cui Mattarella fece ricorso nel maggio 2018, dopo il fallimento del primo tentativo di Conte a causa del veto presidenziale su Savona. In quell’occasione Cottarelli cedette poi il passo al Governo giallo-verde, dopo il compromesso sullo stesso Savona. Ma questa soluzione – il governo elettorale ad hoc, senza fiducia iniziale – ha ben tre precedenti: il I governo Andreotti, il V governo Andreotti e il VI governo Fanfani nacquero con questa finalità e, una volta sfiduciati, portarono l’Italia alle elezioni alla fine (anticipata) delle legislature V (1972), VII (1979) e X (1987).

La vera alternativa a breve termine è in fondo questa. Se a elezioni anticipate ad ottobre si andrà, chi dovrà gestirle? Il Governo uscente guidato da Conte, come è accaduto più volte di recente (si pensi a Monti nel 2013 e a Gentiloni lo scorso anno)? O un Governo terzo, neutrale, guidato da un tecnico o magari dallo stesso Conte, ma senza i ministri attuali, o, almeno, senza buona parte di essi? La prima soluzione avrebbe dalla sua la prassi recente (non è un caso che l’ultimo governo elettorale ad hoc, quello guidato da Fanfani, risalga al lontano 1987), ma il caso di oggi evidenzia una grossa anomalia. Che ha lo stesso nome dell’autore della crisi: Matteo Salvini. Può il principale candidato premier alle prossime elezioni essere il ministro dell’Interno uscente, cioè il capo politico dell’amministrazione che dovrà "gestire" le elezioni? Non si tratta, certo, di immaginare frodi che nessuno ipotizza che Salvini possa volere, ma è compatibile con una ordinata e serena campagna elettorale una leadership politica del Ministero dell’Interno in stile salviniano, come lo abbiamo conosciuto in quest’anno?
La via verso le elezioni, dunque, non è certa ma molto probabile. Il percorso per arrivarvi, però, sembra tutt’altro che definito e proprio per questo deviazioni inattese da tale percorso non dovrebbero sorprenderci.

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