sabato 19 ottobre 2019
Missionari e religiose che hanno condiviso il destino spesso tragico degli indios mostrano il volto della Chiesa
Da Castel Sant’Angelo a San Pietro la Via Crucis del Sinodo per raccogliere l’eredità di tanti testimoni della fede ancora non riconosciuti come santi

Da Castel Sant’Angelo a San Pietro la Via Crucis del Sinodo per raccogliere l’eredità di tanti testimoni della fede ancora non riconosciuti come santi

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Questo è il testamento: «Sì, voglio che capiate che ciò che sta accadendo non è il risultato di alcuna ideologia o fazione teologica, e nemmeno della mia personalità. La ragione è una sola: Dio mi ha chiamato con il dono della vocazione sacerdotale e io ho risposto. Mi ha chiamato a servirlo in questi poveri, contadini indifesi, persone oppresse dalla sete di lucro dei fazenderos, nei tanti violentati e sfrattati, donne e bambini abbandonati, senza pane e senza tetto. Se sto zitto io, chi li difenderà? Ora voglio che voi capiate questo: 'Il discepolo non è più grande del Maestro. Se perseguitano me, perseguiteranno anche voi'. Tutto ciò che sta accadendo è la conseguenza dello stare a fianco di Cristo che ricevo da questi poveri. Per il bene del Vangelo che mi ha portato ad assumere fino alle ultime conseguenze».

Padre Josimo Morais Tavares è stato freddato con un colpo alle spalle mentre saliva le scale dell’edificio episcopale della diocesi di Imperatriz, nello Stato del Maranhão, in piena Amazzonia brasiliana, oggi far-west dell’agro-business e degli allevamenti intensivi. Aveva 33 anni, nel 1986 coordinava la Commissione della pastorale della terra e da tempo la sua presenza risultava scomoda per i potentati locali a motivo delle denunce e della missione tra la gente dei villaggi rurali, gente dalla quale era molto amato. «Celebrai la Messa davanti al suo popolo – scriverà più tardi uno dei vescovi storici del Brasile, dom LucianoMendes de Almeida, ricordando il suo funerale –. Una delle suore che lavorava con lui prese la camicia bagnata dal suo sangue e la mise su una croce come segno del dono della vita, mostrando al popolo quella croce con la camicia perforata dalle pallottole ». Ancora oggi la sua memoria è molto viva tra quella gente. Per padre Josimo non è ancora stata introdotta una causa di canonizzazione.

Proprio questo sacerdote apre una lista di non pochi sacerdoti, religiosi, religiose e laici missionari assassinati in Amazzonia presentata nei giorni scorsi al Papa davanti all’assemblea nell’aula del Sinodo. Una proposta formale avanzata dal vescovo brasiliano di Rio Branco, Joaquim Fernandez, chiede il riconoscimento del loro martirio. Tra queste figure, le cui esemplari biografie sono state pubblicate sul sito vaticano, c’è anche suor Dorothy Stang, missionaria statunitense che operava nella regione dello Xingu, nello Stato del Parà, in Brasile, il territorio dove venne costruita l’autostrada transamazzonica.

Anche suor Dorothy dovette affrontare gravi situazioni di conflitto per la terra. Denunciava la violenza e le ingiuste azioni predatorie di grandi proprietari terrieri nei confronti di piccoli lavoratori rurali e indigeni, le cui terre facevano gola e perciò venivano invase con sconfinamenti o prese con la forza. Difendeva i diritti degli ultimi e con loro inventava forme di lavoro perché avessero un piccolo reddito, associandoli in fattivi progetti di riforestazione. Fu assassinata ad Anapu, nel 2005, all’età di 73 anni, per ordine di un proprietario terriero. Poco prima di essere uccisa aveva dichiarato: «Non voglio fuggire, né abbandonare la lotta di questi agricoltori che non hanno nessuno che li protegga qui, nella foresta. Hanno il sacrosanto diritto a una vita migliore in una terra dove possano vivere e produrre raccolti con dignità e senza devastare l’ambiente». Una mattina nella foresta le puntarono addosso la pistola e le chiesero se fosse armata. Mostrò la Bibbia. «Ecco la mia arma!» ripose, lesse anche alcuni brani delle Sacre Scritture a colui che le sparò a viso aperto. Suor Doroty la chiamano «martire per il Creato».

Altri hanno invece già una causa di canonizzazione avviata, come il frate cappuccino ecuadoriano Alexandro Labaka Ugarte, la francescana Agnese Arango Velsquez, la brasiliana suor Cleusa Coelho, missionaria agostiniana, nello Stato di Amazonas, nel mezzo del massacro degli indios. Suor Cleusa ne prese la difesa: perciò nel 1986, poco prima di compiere 52 anni, fu assassinata sul fiume Paciá mentre cercava di mettere in salvo alcuni bambini indigeni. Il corpo della missionaria, massacrato e mutilato, venne ritrovato due giorni dopo. È stato così anche per il missionario comboniano di origini padovane padre Ezechiele Ramin, assassinato in Rondonia nel 1985 per la sua missione accanto agli indios suruì: di lui è stato chiesto che fosse nominato patrono del Sinodo. Ramin fa parte della schiera di donne e uomini che, mossi dalla fede, sono andati in queste terre non come coloni. In mezzo a popoli considerati alla stregua di selvaggina da braccare e cacciare, ridotti in schiavitù o decimati fin dall’arrivo dei colonizzatori europei, questi missionari sono stati testimoni del Vangelo, si sono presi cura con rispetto di quel prossimo e del loro ambiente, facendosi fautori di inculturazione. «Fin dal principio, la testimonianza e la solidarietà con i popoli indigeni sono state praticate al caro prezzo di persecuzioni, pressioni di ogni tipo, accuse calunniose. Molte volte missionari e operatori della Chiesa sono stati assassinati. Molti sono stati i martiri!», ha più volte detto il cardinale brasiliano Claudio Hummes. Non si tratta soltanto di membri della Chiesa, ma anche di altri – molti altri – difensori dei diritti degli indios, che furono e continuano ancora a essere inquisiti, criminalizzati, arrestati e persino uccisi da funzionari pubblici e da privati.

La Chiesa tuttavia non può che ricordare i tanti missionari e le missionarie che in questa regione, tra fiumi e foreste, hanno offerto la loro vita per amore di Gesù Cristo e dei popoli amazzonici, hanno vissuto in quei posti fino alla fine, e là giacciono sepolti. Storie eroiche ed esemplari. Come semi di un futuro più umano e più cristiano, «la cui memoria è fonte di speranza per i popoli amazzonici». «Tanti fratelli e sorelle in Amazzonia portano croci pesanti e attendono la consolazione liberante del Vangelo, la carezza d’amore della Chiesa. Per loro, con loro, camminiamo insieme. Tanti fratelli e sorelle hanno dato e stanno dando la vita per l’Amazzonia – ha ricordato il Papa nella Messa di apertura del Sinodo –. Fedeli al fuoco del Vangelo, che non distrugge, ma unifica e riscalda».

Del resto, questo è il senso cattolico della vicenda martiriale, a imitazione dell’Agnello che ha vinto il peccato, il male del mondo, per rigenerare l’umanità. La storia delle missioni è perciò la storia del martirio di Cristo che sempre si rinnova secondo la 'beatitudine delle persecuzioni', previste e garantite da Gesù ai suoi discepoli. E se il martirio è vocazione, dono che rende conformi a Cristo, la testimonianza feconda dei martiri ha la particolarità di rendere manifesto un messaggio: la salvezza di Cristo, anche se nella nostra cultura odierna questa natura propria del martirio cristiano viene spesso persa di vista. Ma il Sinodo stesso, puntato sulla missione, vuole mostrare l’adesione totale a Cristo accettando la centralità dei poveri così come la presenta il Vangelo. Riconoscerli come veri costruttori del Regno e ascoltare il loro grido come quello della terra significa una conversione missionaria. È questo il senso della via Crucis per l’Amazzonia che si è tenuta a Roma, nella memoria dei suoi martiri, con i padri sinodali in cammino da Castel Sant’Angelo, sulla via verso San Pietro.

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