Come capovolgere la spesa militare con la campagna del «sei per mille»
venerdì 4 novembre 2022

Abbiamo la cattiva abitudine di occuparci di pace quando cadono le bombe, ma a quel punto è troppo tardi. Le guerre vanno prevenute e si prevengono costruendo attivamente la pace attraverso iniziative di giustizia, diplomazia, disarmo. Tre percorsi inseparabili fra loro, perché non può esserci diplomazia senza giustizia e non può esserci disarmo senza diplomazia.

Non si può pretendere di avere rapporti pacifici se c’è chi vive di prepotenza e se le disuguaglianze restano radicate. Sinora le guerre moderne sono state per il controllo di combustibili fossili e di minerali per la siderurgia, da qui in avanti saranno sempre di più per l’acqua, per i minerali rari, per le terre agricole, per la biodiversità, per il controllo delle catene di fornitura in settori chiave come semiconduttori, robotica, farmaceutica.

La prepotenza provoca risentimento, rancore, diffidenza, stati d’animo che preparano la strada all’inimicizia e al desiderio di vendetta, con esiti imprevedibili per l’estensione e la forma che possono assumere. L’alternativa è la politica del rispetto, la capacità di intrattenere rapporti commerciali equi che tengono conto dei diritti e delle esigenze di tutti, fino a sapere abbandonare la logica della convenienza per adottare quella della solidarietà. Un passaggio quasi inconcepibile per la dominante mentalità materialista secondo la quale le relazioni economiche non possono mai concludersi con perdite monetarie. Ma è la visione miope di chi continua a non capire che le rinunce economiche sono spesso compensate da guadagni su altri piani: la concordia, la riconoscenza, la fiducia, ingredienti fondamentali di quei rapporti di amicizia che garantiscono la pace. Il che dimostra che c’è una stretta correlazione fra modello di sviluppo e pace, avvalorando la tesi di chi sostiene che la pace, al pari dell’ecologia, è un concetto di tipo integrale.

Accanto a condizioni di equità, l’umanità deve anche dotarsi di sedi e vie diplomatiche per la composizione pacifica dei conflitti. Un’esigenza che i nostri costituenti avevano ben chiara quando nell’articolo 11 precisarono che l’Italia «consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie a un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo». Parole che dovremmo intendere in senso estensivo, facendo assumere all’Italia il ruolo di negoziatore attivo per la risoluzione dei conflitti internazionali. Ma anche quello di grillo parlante in seno all’Unione Europea affinché venga attuato l’articolo 21 del Trattato Ue: «L’Unione definisce e attua politiche comuni (...) al fine di preservare la pace, prevenire i conflitti e rafforzare la sicurezza internazionale, conformemente agli obiettivi e ai principi della Carta delle Nazioni Unite». Intenti che si perseguono anche aggiungendo un posto al tavolo della Commissione Europea. Il posto di Commissario per la pace, incaricato di analizzare le situazioni di conflitto esistenti nel mondo e quindi proporsi come facilitatore per la loro soluzione. La sensazione è che non imboccheremo mai la strada della diplomazia finché non ci crederemo. Parliamo di pace, ma prepariamo la guerra, parliamo di diplomazia, ma rafforziamo le armi. Le alleanze militari a questo sono vocate. Non a caso, recentemente la Nato ha chiesto a tutti i suoi membri di innalzare la propria spesa militare al 2% del Pil. Una pericolosa escalation. L’alternativa è ridurre la spesa militare cominciando a costruire percorsi di difesa non armata. Nella storia si sono avuti vari casi di eserciti messi in difficoltà da popolazioni che hanno attuato la non collaborazione. Maestri come Gandhi, Martin Luther King, Tolstoj, don Lorenzo Milani, ci hanno insegnato che nessun potere può sopravvivere di fronte a popolazioni che in nome dei propri valori attuano la non collaborazione tramite la disobbedienza civile.

Papa Francesco definisce la guerra una follia e lo è ancora di più alla luce del fatto che la difesa popolare e nonviolenta è possibile, purché ci si investa. Per questo la Rete Pace e Disarmo chiede al Parlamento il varo una legge per l’“Istituzione del Dipartimento della Difesa Civile non armata e nonviolenta”. Una proposta di legge che tra l’altro contiene anche la così detta opzione fiscale, ossia la possibilità per i contribuenti di destinare al previsto Dipartimento il sei per mille della propria Irpef. Ed è proprio riprendendo questa idea che varie personalità, fra cui Alex Zanotelli, Luigi Ciotti, Moni Ovadia, oltre a chi scrive, hanno lanciato una campagna denominata “Sei per la pace, sei per mille”, chiedendo a chiunque la condivide di agire come se l’opzione fiscale fosse già realtà, versando il sei per mille della propria imposta Irpef alla Tesoreria Centrale per la Protezione Civile o altra realtà che persegue finalità coerenti con la difesa civile non armata e nonviolenta. Inoltre chiede di accompagnare tale scelta con una richiesta di rimborso all’Agenzia delle Entrate, in modo da creare un caso politico che costringa Governo e Parlamento a occuparsi del tema. Chiunque voglia dare la propria adesione, per dimostrare che in Italia esiste un popolo della pace, è invitato a iscriversi sulla piattaforma https://peacelink.it/seipermille.

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