Ci ripensino, ripensiamoci
giovedì 14 febbraio 2019

Ci sono formule semplici che, a caldo, possono sembrare risposte adeguate al dibattito svoltosi martedì dopo l’intervento del premier Conte all’Europarlamento. "Giusto o sbagliato, è il mio Paese": non si può dare del "burattino" al presidente del Consiglio di una nazione Ue che ha svolto un rispettoso intervento istituzionale rivolto all’Assemblea elettiva, che peraltro lo aveva già snobbato con una scarsa presenza in aula. "I panni sporchi si lavano in famiglia": qualche critica alle politiche del nostro governo centra un bersaglio reale, ma è affare degli italiani farsene carico, fuori casa dobbiamo essere compatti nel respingere giudizi sommari e ingerenze (sia pure euro-familiari). Passati la sorpresa e lo sconcerto di una contestazione che non ha molti precedenti, è difficile bollare come sbagliate le repliche che sono state subito avanzate dalla maggioranza politica, da molti commentatori e da tanti cittadini indignati.

D’altra parte, ignorare il contesto sarebbe un errore altrettanto grave, se si vuole mantenere lucidità di analisi, soprattutto allo scopo di evitare che situazioni simili si ripetano. In questo senso, bisogna considerare che Conte ha parlato nel cuore delle istituzioni europee rivolgendosi ai rappresentanti eletti con mandato europeo (e non a burocrati senza rappresentatività). In tale cornice, opporre unicamente slogan a slogan non fa che peggiorare una incomunicabilità deleteria.
Presi alla lettera "giusto o sbagliato, è il mio Paese" e "i panni sporchi si lavano in famiglia" sono una sintesi informale e accattivante del sovranismo, declinato poi in chiave anti-Ue. Se vogliamo stare in Europa, in questa Unione Europea che l’Italia ha contribuito grandemente a costruire nel suo spirito e nelle sue regole, non possiamo pretendere di sforare impunemente i parametri comuni di bilancio, improvvisare una politica di chiusura a prescindere ai migranti con annesso ricatto ai nostri partner, interferire nella politica interna di un altro Paese membro sostenendo un movimento para-eversivo, divergere senza buoni motivi dalla linea comune adottata sul Venezuela... E le critiche di merito mosse al nostro premier riguardavano principalmente questi temi. Stare in Europa significa considerare le conseguenze delle proprie scelte politiche sull’intero scacchiere comunitario.

Lo stesso, tuttavia, può e deve valere per ogni membro Ue. E in particolare, verrebbe da dire, per Guy Verhofstadt, la cui esperienza politica - è stato egli stesso primo ministro del Belgio per più di otto anni - toglie ogni attenuante all’incauta e offensiva accusa a Conte e a tutto il popolo italiano che nell’occasione il presidente del Consiglio rappresentava in sede europea. Apostrofare un capo di governo quale «burattino» dei suoi vice, oltre a essere una grave mancanza di galateo istituzionale, svaluta l’azione svolta sulla scena europea, in frangenti assai delicati, da Palazzo Chigi e non fa che dare vento alle vele della sfiducia e perfino del disprezzo verso l’entità "Europa".

È il motivo per cui il muro contro muro alimentato da una certa politica estera di Roma e un persistente pregiudizio anti-italiano di una frazione influente dei leader e dei rappresentanti dei Paesi membri non fanno che accelerare la disunione continentale. Da una parte, si ritiene che sia giunto il momento di rovesciare il tavolo per ricostruire un nuovo schema di relazioni, ignorando però che si finirà con il correre ciascuno per sé (l’Italia non troverà altro che alleanze tattiche mirate a "distruggere"), e il giocattolo una volta rotto non si aggiusterà da solo.

Dall’altra, si pensa che il contagio sovranista, raggiunto uno degli Stati chiave dell’Unione, vada circoscritto in ogni modo, sottovalutando la controreazione che un atteggiamento soltanto sprezzante provoca (comprensibilmente) nell’elettorato. Le scuse di Verhofstadt a Conte e all’Italia intera sarebbero doverose. Ma una valutazione pacata da parte dell’esecutivo della non gloriosa giornata di martedì sarebbe ugualmente auspicabile. Non si tratta di obbedire ai diktat di Bruxelles, bensì di interagire con più coerenza e più diplomazia, tutelando l’interesse nazionale nel quadro di un interesse europeo da cui non possiamo chiamarci fuori senza pagare dazio. Lo si è visto con la Manovra e con l’atteggiamento verso l’autoproclamato presidente venezuelano Guaidó: l’iniziale impuntatura ci è costata molto, e alla fine siamo andati dove avremmo potuto collocarci fin dall’inizio. Il 26 maggio toccherà poi ai cittadini esprimersi con la propria scheda nell’urna, ma sarebbe l’ennesimo errore di prospettiva focalizzarsi sul risultato nazionale. Non sarà la delegazione italiana a Strasburgo a decidere gli orientamenti di Parlamento e Commissione europei: risulterà, anzi, una scommessa miope capitalizzare gli insulti per polarizzare ancora più le scelte. A meno di puntare tutto su un’improbabile via autarchica che alla fine farebbe felici anche molti nostri attuali 'avversari'.

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