Chi paga la notizia?
sabato 14 luglio 2018

Il progetto di risoluzione europea sul copyright – come è stato per semplicità chiamato il testo ampio e complesso in materia di diritto d’autore – ha subito uno slittamento a settembre che assomiglia più a un "no" che a un semplice rinvio. Al di là delle denunce di pressioni sugli europarlamentari da parte dei giganti di internet e di molte considerazioni che già sono state svolte, possono essere evidenziati due ulteriori elementi emersi durante l’acceso dibattito intorno alle misure proposte a tutela della proprietà intellettuale e al voto su di esse. In primo luogo, l’oscuramento per due giorni di Wikipedia, l’enciclopedia libera online, non è forse stato sufficientemente valutato nella sua portata. La protesta del comitato di gestione italiano, preoccupato di alcune solo potenziali limitazioni ai contenuti (e non i più rilevanti), ha comportato il momentaneo blackout per milioni di domande che ogni secondo rimbalzano sulla rete e trovano risposta in un aggregatore di informazioni che un’impresa collaborativa tra utenti mette a disposizione di tutti gratuitamente.

In questo senso, potrebbe sembrare che si stia parlando di una situazione all’opposto della regolamentazione del copyright. Infatti, dovrebbe essere tutelata nel modo più ampio la possibilità di accedere a una tale fonte di conoscenza istantanea e per lo più imparziale e rigorosa (tralasciamo qui ovviamente le fondate obiezioni a un sapere fatto solo di Wikipedia, questo è un altro discorso). Non è un caso se le dittature cercano di censurare quei siti che forniscono notizie e dati obiettivi su ciò che esse cercano di nascondere a favore della propaganda basata su distorsioni e falsità. Ma il punto, rispetto allo "sciopero" dell’enciclopedia più consultata, è che la sua assenza ha mostrato quanto sia utile e quanto sia più costoso in termini di tempo e di risorse trovare fonti equivalenti. Non c’è un’altra Wikipedia, e inventarla non è per nulla semplice, anche se certo non impossibile.

Osservazioni quasi banali, si può commentare. Vero. Restando all’Italia, si provi però a immaginare un oscuramento simile attuato dai principali siti di informazione, che coincidono quasi al cento per cento con le principali testate italiane (di carta stampata, digitali o televisive, comprese le agenzie classiche come l’Ansa). Sono quella trentina di siti (stima generosa) che alimentano gran parte dell’informazione secondaria, comprese centinaia di tv e radio locali, decine di migliaia di siti internet e di blog personali, il traffico su Facebook e Twitter. Finché ci sono, gratuite per tutti, il sistema funziona. Quando fossero "spente", si avrebbe probabilmente un grippaggio soft dell’intera filiera dell’informazione. Non è mai successo, non si auspica che succeda, eppure immaginarselo – e il caso di Wikipedia ce ne dà l’occasione – è un esercizio utile. Perché nessuna paga quei trenta siti, ma il lavoro che vi sta dietro costa molto.

E paradossalmente esso collabora a indebolire la fonte che lo manteneva, ovvero la vendita dei prodotti informativi a pagamento che i consumatori abbandonano a favore di quelli disponibili liberamente online (con qualche responsabilità degli editori, va detto).
Anche Wikipedia ha dei costi – infrastrutturali, gli autori sono volontari – e ogni tanto ce lo ricorda (chi scrive si sente in dovere di dare il suo piccolo contributo perché ne apprezza il valore e non pensa che i finanziamenti crescano sugli alberi). Così, se è vero che non si può lottare contro i mulini a vento e bisogna prendere atto che tentare di difendere il diritto d’autore nel mondo digitale come si fosse ancora ai tempi della sola stampa (quando le violazioni era comunque diffuse) è velleitario e forse illiberale, non è nemmeno possibile rinunciare a remunerare chi procura, elabora e diffonde contenuti informativi vitali per il funzionamento di una società democratica. Chi compila una voce di Wikipedia può farlo nel tempo libero; svolgere un’inchiesta giornalistica approfondita o compiere un reportage in luoghi lontani non può che essere un’attività a tempo pieno (magari sovvenzionata da filantropi, ma non può che essere un’eccezione).

Ciò ci riporta al secondo elemento cui accennavamo all’inizio. Essere impegnati nel mondo digitale, come produttori di contenuti virali e protagonisti della discussione pubblica, comporta un impegno di tempo che non è compatibile con lo svolgimento di un’altra professione privata remunerata. E infatti coloro che animano principalmente il dibattito sono i nostri rappresentanti politici eletti, sia a livello nazionale sia a livello locale. Sono persone che ricevono uno stipendio pagato con fondi pubblici, ovvero con una frazione delle tasse che ciascuno di noi versa. Potrebbe essere allora una contraddizione che alcuni uomini politici di spicco abbiano in questi giorni espresso critiche al tentativo di rendere più rigorosa la difesa del diritto d’autore e contemporaneamente si siano espressi contro qualunque forma di sostegno pubblico – diretto o indiretto – ai mezzi di informazione.

Sembra sicuramente giusto mantenere – nel senso nobile – coloro che animano il dibattito delle idee, come onorevoli o consiglieri di amministrazioni locali. Perché non dovrebbero essere messi in condizione di potersi remunerare in un modo o nell’altro – sempre con correttezza ed equità – coloro che di mestiere producono contenuti informativi? O forse tutti si dovrebbero guadagnare da vivere in maniera alternativa e operare nel mondo digitale gratuitamente, politici compresi?

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