Se la strage di Kabul è meno notizia
venerdì 2 giugno 2017

«Tutti i figli di Adamo formano un solo corpo, / sono della stessa essenza. / Quando il tempo affligge con il dolore / una parte del corpo / le altre parti soffrono. / Se tu non senti la pena degli altri / non meriti di essere chiamato uomo». Versi bellissimi. Semplici e potenti. Il nuovo libro di Carlo Rovelli, "L’ordine del tempo", ce li riporta alla memoria, subito a pagina 28. Sono di un poeta persiano e stanno all’entrata del Palazzo dell’Onu, a New York. Esprimono un concetto che papa Francesco ripete sempre: la fame degli altri va saziata come se fosse la nostra fame. L’umanità è composta di miliardi di uomini, la morte di un nemico la diminuisce come la morte di un amico. A rigore, se il nemico è uomo come me, non posso chiamarlo nemico. Dico questo perché c’è appena stata la mega-strage di Kabul, e sui giornali e nei tg ha avuto molto meno spazio, meno evidenza e meno durata della strage di Manchester, anche se ha fatto molte più vittime. Ma sono vittime afghane, e come tali contano meno delle vittime europee o americane.


Contano meno per chi? Per noi europei? Sto forse facendo un discorso moralista, chiamando i fratelli di continente a una maggiore coscienza? No, le vittime afghane contano meno in assoluto, "anche per gli afghani". Se c’è un problema di etica collettiva, è questo. La svalutazione delle vittime degli altri mondi (Terzo, Quarto) è un problema che riguarda anche gli altri mondi.


Ricordo che ai tempi della guerra in Vietnam è apparso un articolo, sul maggiore giornale italiano, intitolato: «Giornata amara per le forze americane», l’ho letto subito, e ho scoperto che c’era stata una battaglia dov’erano morti 18 marines. Sì, ma dall’altra parte erano morti 80 vietcong. A rendere amara la giornata erano i 18, non gli 80. Perché i 18 erano "nostri". La caduta dei nostri è una tragedia. La caduta degli altri è una vittoria. Tutti puntano sulla vittoria. Qui, in Afghanistan, a Kabul, la tragedia dei 90 morti e 400 feriti afghani vien trasformata dagli afghani in tragedia dell’Occidente, delle forze americane che avrebbero avuto almeno 8 soldati morti, numerosi feriti, e due automezzi blindati distrutti. Non sappiamo con certezza chi ha messo la bomba, i sospetti vanno su una frazione locale del Daesh. «In realtà – precisava ieri "Avvenire" –, tra le vittime non ci sono militari americani». Allora, perché gli afghani le aggiungevano? Per dare terribilità alla notizia: se muoiono soltanto afghani la notizia conta meno, se muoiono anche americani conta di più.

Mentre scrivevo questo articolo, ieri sera, la notizia era scomparsa dalle prime pagine delle agenzie online. Non sarebbe scomparsa se le vittime fossero state americane o in parte americane, o anche europee. Il sogno del poeta persiano, che ha scritto quei versi citati da Carlo Rovelli, incisi sopra la porta dell’Onu, è ancora un sogno. Le stragi, anche le stragi, contano non in proporzione alla loro vastità, ma in proporzione alla loro capacità di suscitare emozione in noi occidentali. Noi non siamo umanità, cioè un unico corpo collettivo, che comprenda tutti gli uomini, come sognava il poeta persiano.

Se lo fossimo, una strage sarebbe un’amputazione del nostro corpo, e una strage di queste dimensioni sarebbe un’amputazione invalidante, non potremmo più vivere come prima. Dovremmo bloccarci. E se invece non ci blocchiamo, ma rimuoviamo la strage dalla nostra informazione, vuol dire che non formiamo un corpo unico, siamo tanti corpi separati, e il dolore degli altri non tracima nel nostro. Il poeta persiano dice: «Non meritiamo di essere chiamati uomini ». Fermiamoci su questo verso. Qui c’è una nuova idea di uomo, e vale la pena di tirarla fuori: uomo è chi soffre se vede che gli altri soffrono. E, in un certo senso, muore se vede gli altri morire. No, non siamo umani. Il nostro compito è lavorare per diventarlo.

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