C'era una volta la «signora», resta il dramma birmano
mercoledì 3 febbraio 2021

Una vita intensa, quella di Aung San Suu Kyi, su questo non c’è dubbio. A poco più di due anni, mentre accompagnava la madre alle cerimonie per il primo giorno di indipendenza del suo Paese, vide saltare in aria l’edificio dove suo padre, il controverso 'padre della patria' Aung San (pur di ottenere il suo obiettivo, la liberazione dal giogo inglese, si era alleato con gli invasori giapponesi), attendeva di essere nominato primo ministro. Poi molti anni all’estero, a fianco della madre, diplomatica di carriera e infine studentessa ricca e privilegiata in vari, prestigiosi atenei, tra i quali Oxford. Si innamora di un schivo studioso di Tibet, Michel Aris, con il quale va a vivere prima in Bhutan, poi negli Usa e infine in Inghilterra. Sembrava che il destino le avesse riservato, dopo tante emozioni, una vita tranquilla.

E invece doveva succedere ancora di tutto. Nel 1988 rientra in patria per accudire la madre malata. Si ritrova in un Paese stremato, alla mercé di un regime sanguinoso e corrotto, capace di inaudite violenze contro la popolazione civile. Si ritrova, potremmo dire 'a sua insaputa', leader dell’opposizione. Fonda un partito, la Lega nazionale per la democrazia che nel giro di pochi mesi vince le elezioni, ottenendo il 90% dei seggi. Ma i militari non ci stanno. Rifiutano (come hanno appena rifatto) di accettare il risultato e arrestano tutti i leader dell’opposizione. Lei compresa. In prigione ci resta poco, in realtà. È sempre la figlia del padre della patria, e il regime la tratta con crudele rispetto. Arresti domiciliari 'dorati', nella sua villa sul lago di Yangoon, libera, ogni tanto, di ricevere ospiti.

Nel 2010 – dopo aver rinunciato perfino a visitare il marito morente per il timore di non poter più rientrare in patria – la 'signora', oramai la chiamano tutti così, viene finalmente liberata e comincia la lunga marcia di avvicinamento al potere: vittorie elettorali, riconoscimenti internazionali, ma anche compromessi imbarazzanti con i militari. Che grazie alla Costituzione che avevano fatto approvare nel 2008, mantengono il diritto di veto su ogni tentativo di modificarla. Passano gli anni, il Paese si riapre al turismo e agli investimenti, ma le leggi contro la libertà di stampa e le discriminazioni etniche e religiose restano in vigore. Nel 2017 U Ko Ni, giovane avvocato vicino alla 'signora', viene assassinato davanti all’aeroporto. Aung San Suu Kyi non si presenta ai funerali e attenderà oltre un anno prima di ricordarlo pubblicamente. Alcuni 'storici' dirigenti del partito l’abbandonano, ma non riescono, forse neanche ci provano, a fondare un nuovo partito, mentre il vecchio si svuota, inesorabilmente. La 'signora' è sempre più ostaggio – più o meno consapevole (e su questo punto si dividono gli 'osservatori' – dei militari. Arriva al massimo del potere formalmente consentito: ministro degli Esteri, Consigliere di Stato. La carica di Presidente le è preclusa dalla Costituzione (ha figli 'stranieri').

E continua a manovrare dall’interno il processo di democratizzazione, accettando perfino di difendere davanti alla Corte Internazionale di Giustizia il massacro dei Rohinghya, la minoranza etnica di religione musulmana, ordinata dal generale Min Aung Hlaing, nuovo capo dello Stato. Ma non basta. L’ultimo trionfo elettorale, a novembre 2020 (83% dei suffragi) e la sempre più intensa attività diplomatica (è lei a ricevere in pompa magna il ministro degli Esteri cinese Wang Yi, un paio di settimane fa) insospettiscono e irrigidiscono i militari che non vogliono perdere il controllo del Paese, soprattutto ora che grazie ai massicci investimenti cinesi e il lento ritorno di quelli occidentali l’economia, nonostante la pandemia, è tra le più vivaci della regione. Di qui il golpe, annunciato e subito, più che ispirato, da Pechino. Ma visto che alla Cina non interessa l’interlocutore, bensì fare affari e anche l’Occidente, Stati Uniti in testa, sembra più intenzionato a conquistare contratti piuttosto che combattere una nuova crociata in favore di Suu Kyi, a rimetterci, ancora una volta, sarà il povero popolo birmano. Quanto alla 'signora', per ora sono solo voci, ma potrebbe essere all’ultimo bivio: tornare agli arresti domiciliari o accettare di uscire definitivamente dalla scena politica e mantenere un basso profilo.

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