Caso Regeni, perché non sia una vergogna
giovedì 17 agosto 2017

Il dolore e la rabbia della famiglia Regeni per la decisione del governo di far ritornare il nostro ambasciatore al Cairo sono ben comprensibili e umanamente condivisibili: talmente brutale l’assassinio del loro figlio e troppe le reticenze e le ambiguità del governo egiziano sulla vicenda per poterla accettare.

Va tuttavia detto che, a livello politico, si è trattato di una scelta attesa e finanche logica: è davvero importante recuperare un rapporto pieno con il più importante Stato della sponda sud del Mediterraneo, soprattutto oggi, con la partita libica sempre più intricata – che vede l’Egitto giocare un ruolo di primissimo piano – e con l’evoluzione della gestione del problema migranti. E nonostante il timore di alcuni, non è assolutamente detto che il pieno ristabilimento delle normali relazioni diplomatiche voglia significare la fine della ricerca della verità da parte italiana. Anzi, proprio la normalizzazione può favorire il lavoro della nostra magistratura. Ben consapevoli che più si sale nell’accertamento delle responsabilità e più diventerà difficile riuscire a trovare riscontri e prove. Prove, addirittura esplosive, che secondo un articolo del 'New York Times' i nostri vertici politici avrebbero da tempo, fornite dall’Amministrazione Obama.

Al di là del tempismo di queste rivelazioni – che sembrano fatte apposta per infiammare le polemiche –, c’è qualcosa nelle ricostruzioni del giornale statunitense che lascia perplessi. Non certo sul coinvolgimento di alte sfere del regime egiziano nel rapimento e nell’efferato omicidio del nostro giovane studioso: da tempo nessuno nutre più alcun dubbio in proposito. Ma sul modo un poco romanzato con cui vengono raccontate le reazioni dell’allora Segretario di Stato, Kerry, contro l’Egitto e sulle modalità di trasmissione di queste 'prove'.

Certo, non vi è dubbio che l’Egitto di al-Sisi sia un Paese in cui, sia prima sia dopo il caso Regeni, le forze di sicurezza governative praticano ampiamente la tortura, il rapimento e l’eliminazione di presunti islamisti radicali. Come nella quasi totalità del Medio Oriente, del resto. In Libia siamo costretti a cercare la cooperazione di loschi figuri delle milizie dal comportamento più che ambiguo.

Diamo miliardi – con una decisione di fatto imposta all’Unione Europea dalla Germania – al presidente turco Erdogan, che da anni fa strame di ogni diritto civile e politico nel suo Paese. L’Arabia Saudita, tornata completamente nelle grazie della nuova amministrazione statunitense, da lungo tempo compie stragi di civili in Yemen con bombardamenti indiscriminati. E l’elenco di altri casi potrebbe occupare buona parte delle pagine di questo giornale.

In molti hanno bollato la decisione del nostro governo nella vicenda Regeni come cinica realpolitik: etichetta comoda, ma forse abusata. Normalizzare i rapporti con l’Egitto era fondamentale da un punto di vista geopolitico e di tutela degli interessi del nostro Paese. Non vi è nulla di scandaloso o 'cinico' in questo. Se vogliamo cercare di risolvere l’incancrenita crisi libica, sempre che quel disastro si possa risolvere allo stato attuale, dobbiamo necessariamente dialogare con l’Egitto, che sostiene in modo massiccio il generale Haftar, con cui l’Italia ha rapporti estremamente difficili. E un dialogo con Haftar è la via maestra per ridurre l’anarchia di un Paese che incentiva il traffico brutale e spietato di migranti. Un altro tema prioritario per ragioni umanitarie e per la nostra sicurezza.

È quindi il ritorno del nostro ambasciatore semplice realpolitik? Sì, se questo significa accettare una resa vergognosa sul caso Regeni. No, se la nostra magistratura continuerà invece a lavorare, come sta facendo con una (apparente?) crescente collaborazione delle autorità giudiziarie locali. Consapevoli dei limiti che verranno posti a queste indagini man mano che si salirà verso l’alto. Come tante volte avvenuto, e non solo in Medio Oriente.

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