giovedì 2 agosto 2018
Servono inclusione e un programma dei flussi di ingresso
Capire le ragioni della paura e regolare gli arrivi dall'estero
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I tweet poco ortodossi e tutt’altro che istituzionali del ministro dell’Interno, la reazione di una parte rilevante della società civile, i fatti di cronaca nera a sfondo xenofobo e razzista testimoniano che il tema delle migrazioni, nonostante il crollo degli arrivi di profughi via mare, continua a essere la frontiera simbolica sulla quale anche nel nostro Paese si scontrano diverse visioni del mondo. Ma gli italiani che sembrano per ora approvare in maggioranza il pugno duro sono diventati davvero in gran numero xenofobi e persino razzisti? Difficile da credere, impossibile da accettare. Ma è, certo, necessario che i tantissimi che hanno come riferimento princìpi umani e spirituali saldi facciano uno sforzo maggiore per capire quello che sta accadendo e contribuire a risolvere il problema.

Il primo sforzo da fare è sulle cifre del fenomeno. Se è vero che il rapporto rifugiati per abitante in Italia non è particolarmente elevato, la situazione cambia quando consideriamo gli irregolari (migranti che si trovano in Italia a cui è stato negato lo status di rifugiato, migranti che avevano e hanno perso un lavoro e con esso il permesso di soggiorno). Il presidente dell’Inps Tito Boeri ha correttamente evidenziato lo scarto tra quota dei migranti effettivi e percezione alimentata dalle campagne politico mediatiche. Bisogna, però, tenere conto del fatto che la distribuzione dei migranti nel nostro Paese è molto eterogenea e che densità di presenza maggiori possono effettivamente verificarsi in alcune aree urbane. C’è, inoltre, la forte percezione tra i nostri concittadini dell’ingiustizia di essere stati lasciati soli a gestire il fenomeno da parte degli altri Paesi dell’Unione Europea (percezione solo in parte corretta se consideriamo che la Germania è uno dei Paesi più aperti all’arrivo e all’integrazione degli stranieri).

Oltre a queste considerazioni fondamentali la posizione degli italiani sul tema dipende essenzialmente da tre fattori. Il primo è il 'valore' che attribuiamo alla dignità e qualità della vita di un nostro concittadino rispetto a quella di una persona migrante. I valori cristiani e civili ci spingono costantemente ad accogliere i più deboli e fragili e, dunque, premono perché il rapporto sia uno a uno. Allo stesso tempo per il politico nostrano i primi possono contare molto più dei secondi, se si guarda cinicamente al tornaconto elettorale. Ci sono però altri due fattori fondamentali su cui le opinioni nel Paese sono discordi e in parte alimentate da cattiva propaganda. Quanto l’accoglienza di un migrante contribuisce a migliorare le sue condizioni di vita? E che effetto la stessa produce sulle condizioni di vita dei cittadini italiani?

Sul primo punto si è sviluppata una vera e propria 'narrativa Kunta Kinte' (il protagonista della saga 'Radici', africano sradicato dal suo mondo e deportato negli Stati Uniti) che afferma che accogliere vuol dire essere complici dei negrieri che quasi 'deportano' per business migranti che finiranno nel nostro Paese in condizioni di schiavitù. Creando un 'esercito di riserva' di manodopera che riduce i nostri salari. Se è sempre possibile citare casi di abusi nei confronti dei migranti (e il caso della tratta delle prostitute nigeriane assomiglia molto allo stereotipo citato), le analisi econometriche raccolte nel recente rapporto mondiale sulla felicità ( World Happiness Report 2018) spiegano che la soddisfazione di vita dei migranti converge rapidamente a quella dei nativi nei Paesi di destinazione. Gli immigrati sono perfettamente razionali. Decidono di affrontare i costi e i rischi del processo migratorio quando la differenza tra qualità della vita nel Paese di origine e qualità attesa nel Paese di destinazione è elevata. Chiunque si sia immerso solo per un attimo nei tanti luoghi limite del vivere sociale (gli slum di Nairobi, solo per fare un esempio) capisce che una vita difficile da 'irregolare' in Italia offre, in mezzo a difficoltà e disagi, opportunità e prospettive molto superiori e tali da motivare il viaggio. Né possiamo pensare che i migranti abbiano cattive informazioni in un mondo come quello di oggi dove è possibile comunicare in tempo reale con parenti e amici che hanno tentato la via dell’Europa o di altri Paesi ad alto reddito.

Al di là di questi alibi, l’ostilità di una parte del Paese nasce dall’umana paura di perdere qualcosa che cresce quando le condizioni economiche peggiorano. In un lavoro pubblicato sul Journal of SocioEconomics nel 2009, chi scrive – assieme con Stefano Castriota e Fiammetta Rossetti – ha dimostrato che la tolleranza dei tedeschi verso i migranti negli anni 90 si riduce sensibilmente dopo un periodo di recessione. L’ostilità è anche condizionata dalla classe sociale a cui si appartiene. Studi come quello di Gianmarco Ottaviano e Giovanni Peri sugli Stati Uniti (2012) dimostrano come i migranti sono sostituti imperfetti dei lavoratori autoctoni che nel medio termine aumentano la produttività del capitale e del lavoro locale con effetti debolmente positivi sui loro salari. L’esperienza dei mille mercati del lavoro del nostro Paese insegna, inoltre, che c’è un bisogno enorme della ricchezza e della varietà di lavoratori stranieri specialmente in alcuni settori come quelli dei servizi agli anziani e dell’agricoltura sempre salvaguardando con attenzione basilari condizioni di dignità. Forza lavoro giovane e straniera potrebbe inoltre essere decisiva per frenare lo spopolamento delle nostre aree interne. Nella storia economica lavoratori autoctoni e immigrati sono spesso stati reciprocamente complementari e non sostitutivi.

Gli 'stranieri residenti' arrivano da situazioni drammatiche e trovano lavori che migliorano le loro condizioni di vita consentendo loro anche di inviare denaro a casa. Lavori che gli autoctoni non accetterebbero perché al di sotto del loro livello minimo. Molte filiere produttive, combinando lavoro dei migranti e lavoro italiano, riescono a sopravvivere e dunque il lavoro dei migranti contribuisce positivamente e non negativamente a quello degli italiani. Le migrazioni sono dunque un meccanismo doloroso, ma naturale attraverso il quale tutti possono migliorare la propria condizione (inclusi i parenti di chi è emigrato, rimasti nei Paesi d’origine).

Consci di tutto ciò dobbiamo al contempo aver chiaro che è inutile il muro contro muro e che dobbiamo capire in profondità le ragioni della paura dei nostri concittadini. Siamo tutti convocati nel dibattito, che si svolge sia mezzi di comunicazione tradizionali sia sui social, dove dobbiamo argomentare con chiarezza ed efficacia le ragioni del cuore e della ragione, dimostrando come esse non sono in contraddizione con quelle del progresso umano, sociale ed economico. Una rete di protezione inclusiva ed abilitante come il Rei (Reddito di inclusione), da estendere ulteriormente, e iniziative per promuovere il progresso economico di quella parte di popolazione che per tipologia di lavoro e livello d’istruzione si sente più minacciata sarebbe fondamentale per ridurre almeno una parte di quest’insicurezza. Una programmazione dei flussi, una gestione efficace degli stessi già nei Paesi di origine e una condivisione dello sforzo con gli altri Stati della Ue sono tappe fondamentali per una risposta razionale e ragionevole al problema.

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