Caos libico: l'ora della politica
mercoledì 5 settembre 2018

Ci sono davvero poche cose che sulla Libia non sappiamo. L’infiammarsi della crisi conferma con tragica evidenza il fallimento di quella primavera che sette anni fa portò alla caduta di Gheddafi e al collasso della Jamairiya e di quel regime che con pugno di ferro e moltissime ombre aveva garantito al Paese una sua torpida stabilità, basata essenzialmente sulle divisioni interne. In questo Gheddafi fu un maestro, come lo fu Tito in Jugoslavia. Non per nulla con la morte del rais il mosaico è esploso e il territorio si è frantumato (esattamente come nei Balcani), mentre Cirenaica e Tripolitania – mai realmente assimilatesi fra loro se non per l’anarchia tribale e le centinaia di milizie, fazioni armate, unità paramilitari e consorterie in perenne lotta tra loro – sancivano la loro divisione profonda e una terza enorme zolla desertica, il Fezzan, diventava una sorta di nuova No man’s land, una terra di nessuno dove tuttora transita e si scambia ogni possibile merce, dalle armi alla droga, dagli organi umani fino alle vite delle migliaia di migranti provenienti dal Sud e dal Corno d’Africa.

Tutto questo lo sappiamo, come sappiamo che a Tripoli c’è un fragile ed evanescente governo, quello di Fayez al-Sarraj, presidente del Consiglio presidenziale e premier riconosciuto ufficialmente dalle Nazioni Unite, una figura che avrebbe dovuto essere di garanzia e di unità, ma che raramente si è potuto muovere dalla base navale in cui ha la residenza, in quanto a Tripoli non era e non è garantita la sua incolumità. Sappiamo anche che a Tobruk, a Bengasi e attorno alle raffinerie di Ras Lanuf domina l’ambigua figura del tenente generale Khalifa Haftar, ex uomo di Gheddafi, ora amico dell’Egitto e da un po’ di tempo anche della Russia che lo adula con sapienza consumata conferendogli onorificenze sul ponte della propria portaerei in cambio – è naturale – di qualche concessione sul territorio per impiantarvi una base navale.

Sappiamo, infine, che Sarraj e Haftar – ci perdonino i due leader – sono soltanto le pedine di un gioco che si gioca fuori dalla Libia e che nasconde interessi e strategie ben più vaste. Le stesse che iniziò a perseguire Nicolas Sarkozy (non fu forse lui a scatenare unilateralmente la "guerra di liberazione" del 2011 sotto il manto dell’intervento umanitario?) e che oggi Emmanuel Macron prosegue con immutata determinazione. Lo scopo è chiarissimo: estendere sulla Libia quel patronage che la Francia ha storicamente esercitato in svariate contrade africane (e non sono in quelle), non senza un tornaconto significativo e peraltro legittimo: il sottosuolo libico è il più ricco di idrocarburi e gas di tutto il continente, con i suoi 63 miliardi di barili di greggio e i 15 miliardi gas naturale la Libia potrebbe servire (e condizionare) il mercato europeo per oltre cento anni.

Nessuna meraviglia dunque per i grandi appetiti energetici francesi: quelli italiani sono i medesimi, solo che noi partivamo favoriti, disponendo delle concessioni più vantaggiose, mentre Parigi – e altri competitors meno appariscenti ma altrettanto interessati, come Stati Uniti, Russia e Regno Unito – aspira a spezzare (e ci sta riuscendo) quello che considera un monopolio italiano. Ma quella francese è una strategia molto miope: appoggiare Haftar per destabilizzare al-Sarraj (e di conseguenza l’Italia) non porterebbe a nulla di buono, perché perfino la Francia, con la sua longeva dimestichezza coloniale, finirebbe comunque per dover fare i conti con le milizie armate, giunte ormai ad appiccare il fuoco alle ambasciate e a minacciare le legazioni diplomatiche.

Che fare, dunque? Riproporre le elezioni di dicembre che ora sembrano sfumare? Puntare tutto sulla conferenza del 10 novembre a Roma? La proverbiale domanda di Lenin ci conduce inesorabili verso un’unica ragionevole conclusione: affidare alla politica ciò che con le armi non è possibile raggiungere. E politica vuole dire accordarsi, negoziare. Questo, come ha argomentato ieri su queste pagine un ex uomo di governo italiano, debbono fare con urgenza Francia e Italia, e dietro a loro l’Europa e tutte le nazioni di buona volontà: accordarsi per ricostruire un Paese che nazione non è mai stato e che da solo non ce la farà mai a diventarlo. Il resto – pensiamo solo alla spaventosa condizione dei migranti che questa nuova crisi non può far altro che peggiorare, sempre che vi sia ancora margine per un peggioramento – sarebbe solo una tragica e colpevole perdita di tempo.

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